Per una città aperta e multiculturale contro il demone della paura

Il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile, un cannone nel cortile.

(La domenica delle Salme, Fabrizio De Andrè)

28febbraio 2018  da Stefano Romboli, Buongiorno Livorno

Non ci sono nuovi mostri terrificanti, è il veleno della paura che trasuda

La paura e l’insicurezza sono intente a saturare quotidianamente l’esistenza umana, mentre la deregulation e la precarietà economica e esistenziale penetrano fino alle fondamenta, e i baluardi difensivi della società civile cadono a pezzi. La rinuncia dello Stato alla funzione sulla quale ha fondato le sue pretese di legittimazione per la maggior parte del secolo passato, lascia la questione della legittimazione del tutto aperta e fragile. Sta prendendo sempre più forza la promessa dello Stato di proteggere i suoi cittadini (in particolare coloro che si ritengono più degni, solitamente sulla base del legame fra territorio e sangue) dai pericoli per l’incolumità personale e per il degrado, che pone al centro dell’attenzione il decoro. La condizione peggiore però non è la paura del pericolo, ma quello in cui questa paura può trasformarsi e ciò che può diventare.

Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta: basta un momento di distrazione e arriva la marginalizzazione e l’esclusione forse irreversibile. Un contesto che necessita di bersagli di riserva sui quali scaricare l’eccesso di paura esistenziale, che altrimenti non viene sfogato in altro modo.
Del resto insicurezza e paura sono molto redditizie dal punto di vista politico e commerciale. Lo dimostrano i temi delle campagne elettorali, le agende politiche e purtroppo soprattutto le prassi di governo. Sul business economico basti pensare, come esempio, al giro di affari che porta ogni serratura in più alla nostra porta d’ingresso.
Le statistiche e i dati legati alla criminalità sono così manipolati, ideologizzati e costruiti quasi sempre in barba all’oggettività e alla realtà. La percezione per lo più indotta e rappresentata prende il sopravvento.

“Legge e ordine”, sempre più legato alle promesse di incolumità personale, è ormai diventato il principale slogan e la miglior risorsa per capitalizzare voti e consensi e per consolidare processi di assoggettamento e asservimento.

Tutto questo lo vediamo nelle nostre città e nelle nostre piazze: spazi e luoghi dove estranei vivono e si muovono. Teatri da tempo dove l’ansia, l’aggressività e le paure hanno confinato la curiosità, la voglia di starci e di conoscersi. E così come in passato mura, fossati e palizzate segnavano il confine fra “noi” e “loro” ed erano essenziali nelle scelte urbanistiche e nelle progettazioni delle città, adesso si promuovono leggi, ordinanze e opinioni per cercare di rafforzare l’instabile e precaria esistenza di coloro ai quali si riconosce una illogica proprietà del territorio sulla base dello ius sanguinis. Intere categorie di persone sono messe all’indice: migranti “economici” (?), richiedenti asilo e pure disadattati e reietti di “casa nostra”.

A mano mano che la polifonia e la policromia culturale dell’ambiente urbano dell’era della globalizzazione si affermano inevitabilmente (e comunque, che piaccia o meno, le nostre società sono già multiculturali) le tensioni derivanti dalla fastidiosa/spiazzante/irritante stranezza dell’ambiente continueranno a favorire spinte segregazioniste.
Il sentimento del “noi” espresso dal desiderio di essere simili e di stare con i simili, diventa uno modo per semplificare analisi e prospettive legate al proprio “io” e alla società nel suo complesso e anche la pratica di nuove aggregazioni e realtà che si stanno diffondendo. Stiamo assistendo a nuove forme di partecipazione civica, opache e con finalità ambigue, che vanno da una cena in piazza alla partecipazione di percorsi e patti cittadini di ampia portata, sfruttando la crisi delle istituzioni e degli organi rappresentativi (fragili o mancanti, come succede a Livorno dal 2014 da quando alla obbligatoria chiusura delle circoscrizioni non si è ancora lavorato nè pensato seriamente a soluzioni alternative per dare titolarità e legittimità a nuovi organi di decentramento amministrativo e politico). Quasi sempre ciò che accomuna gli individui di queste nuove “comunità di simili” è la spinta a contribuire al decoro e alla sicurezza delle proprie strade. Sentimenti legittimi ma che dovrebbero affiancare altro, molto altro. Un processo di individualizzazione che in parte si lega anche alla crisi della partecipazione e del volontariato in senso tradizionale. La Riforma del Terzo Settore – che certifica la fine del mondo dell’associazionismo e del volontariato del novecento – si adegua al nuovo mondo e si abbina ai nuovi strumenti legati al principio di sussidiarietà e della cosiddetta amministrazione condivisa. Strumenti anche utili, ma con elevato rischio di essere usati a sostegno della deresponsabilizzazione statale e di una sempre più forte riduzione delle garanzie alle sicurezze sociali, lasciandole al caso o alla generosità di enti e organizzazioni “caritatevoli”, in mancanza di politiche e di culture serie e organiche.

Siamo da tempo entrati nella società del rischio, come diceva Ulrich Beck, e pure delle grandi sfide che rappresentano anche opportunità. Le nostre città odierne sono discariche di problemi prodotti a livello globale, sempre più esposte a tagli di risorse dall’alto e private di servizi essenziali per chi ne avrebbe più bisogno.
Noi alle paure e alle insicurezze preferiamo l’impegno e il lavoro sui territori con nuovi modelli di welfare senza lasciare indietro nessuno e con quartieri – laboratori per sperimentare strumenti e percorsi per convivere con le differenze che gli abitanti vecchi e nuovi di un pianeta sempre più sovraffollato e preda del capitalismo assoluto non hanno ancora imparato.
Quale posto migliore delle strade condivise delle città per promuovere una “fusione degli orizzonti” e per scoprire e imparare il malcontento, il senso di alienazione, di marginalizzazione e di frustrazione sociale che unisce la maggior parte delle persone, al di là di tutte le divisioni e gli antagonismi costruiti dalle frontiere settarie?

Per Buongiorno Livorno non esiste alternativa: perché ciò che più temiamo, oggi, è una società e una città chiuse in se stesse e che hanno paura. Perché una società e una città così non hanno futuro e sono solo estremamente pericolose.

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