Arab Strap, un viaggio nelle pieghe dell’anima

28 Luglio 2025, di Michele Faliani
Non è un concerto, è qualcosa di più. Quando gli Arab Strap salgono sul palco del Giardino Scotto, per la seconda delle due date del Caracol nel parco accanto all’Arno, il tempo inizia a scorrere in un modo diverso. Le luci si abbassano, le parole cominciano a pesare, e ci si ritrova improvvisamente dentro un racconto che somiglia troppo alla vita.
Aidan Moffat parla — a volte sussurra, a volte declama — e quella voce ti entra dentro come se ti leggesse i pensieri che non hai mai detto a nessuno. Malcolm Middleton, accanto a lui, fa scorrere le dita sulle corde e sui tasti con una calma che sa di rassegnazione e potenza insieme. Intorno, la band costruisce atmosfere: luci che si muovono lente, tappeti sonori che si alzano e si abbassano come un respiro profondo.
Lì, in quel momento, la musica non è più solo musica. È una stanza dove puoi restare da solo con te stesso, con i tuoi errori, con tutto quello che non hai avuto il coraggio di affrontare. È uno specchio, ma al buio.
Il viaggio comincia con I’m Totally Fine with It Don’t Give a Fuck Anymore. Titolo già di per sé manifesto, dichiarazione stanca e feroce. “Allatonceness” apre la strada con la sua tensione elettrica, “Bliss” pulsa come un cuore elettronico, “Sociometer Blues” è una confessione fatta a bassa voce.
Poi si torna indietro, ma senza nostalgia. “Fucking Little Bastards” è ancora una ferita aperta dal 2003, cruda, ironica, violenta. “Girls of Summer” ha il profumo dell’assenza, quel tipo di malinconia che arriva quando tutto è già finito da un pezzo. “The Turning Of Your Bones” ti entra sottopelle. “Hide Your Fires” e “Compersion Part 1” (con la sua ‘falsa partenza’ dovuta ad un problema elettrico alla postazione di Moffat) ti portano in territori più oscuri, dove l’elettronica si fa fredda come certe notti.
Quando arriva “New Birds”, da Philophobia, senti tutto il peso degli anni. Di quelli passati, e di quelli che ancora devono arrivare. “Islands” ti lascia lì, a galleggiare nella solitudine. Ma non sei solo. Nessuno lo è, finché c’è qualcuno che canta queste cose.
C’è spazio anche per “The Shy Retirer”, ironica e disillusa, e per brani come “Strawberry Moon” e “Dreg Queen”, che sembrano raccontare una città che non dorme mai davvero. “Turn Off the Light” chiude tutto come una carezza — amara, certo, ma pur sempre una carezza. E poi il bis, inevitabile e necessario: “Soaps”, bellezza disperata, ti rimette in piedi solo per lasciarti andare di nuovo.
Alla fine, quando le luci si riaccendono davvero e la musica smette di pulsare, resta una strana sensazione. Non di vuoto, ma di pieno. Come se qualcosa, dentro, si fosse spostato. Come se le ferite avessero trovato una forma nuova, sonora, forse perfino curativa.
Gli Arab Strap non danno risposte. Non promettono salvezza. Ma ti accompagnano dentro le crepe, ci mettono il fiato, il sudore, la parola. E tu capisci che sì, forse la vita è proprio come dicono loro: una partita che si gioca comunque, anche quando non sai se stai vincendo o perdendo.
Grazie al Caracol e a DNA Concerti per l’ospitalità.
La scaletta del concerto:
1. Allatonceness
2. Bliss
3. Sociometer Blues
4. Fucking Little Bastards
5. Girls of Summer
6. The Turning of Our Bones
7. Hide Your Fires
8. Compersion, Pt. 1
9. Infrared
10. Islands
11. New Birds
12. Strawberry Moon
13. Dreg Queen
14. The Shy Retirer
15. Fable of the Urban Fox
16. Turn Off the Light
Encore:
17. Soaps