La repressione dei Mapuche con annesso desaparecido e caso Benetton

I conflitti per la terra in Patagonia sembrano non avere mai fine. Imprese come Benetton chiedono alle autorità provinciali e nazionali di proteggere le «loro» terre; terre in realtà sottratte al popolo Mapuche

08ottobre 2017 da Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace

I Mapuche resistono all’invasione e all’esproprio. Il termine «mapuche» significa «gente della terra» («mapu» è terra, «che» è gente) togliere a questo popolo le terre ancestrali, dove riposano gli antenati e dove risiede la memoria, è condannarlo a morte. La Conquista del deserto sembra continuare ai giorni nostri in Patagonia, con altre sembianze, ma identici obiettivi. Gli eredi del generale Roca continuano a marginalizzare, uccidere, perseguitare i popoli indigeni; a derubarli dei loro territori.

I popoli originari subiscono una violenza sociale e strutturale da parte del governo attuale, come di quelli che lo hanno preceduto; quando essi protestano e resistono all’espulsione dalle proprie terre, si risponde non con la ricerca di soluzioni e il rispetto, ma relegandoli nell’indigenza, reprimendoli, accusandoli di compiere atti di violenza e di essere legati a gruppi terroristici, rimproverando loro l’alleanza con i kurdi e gruppi guerriglieri. 

  • La campagna contro i Mapuche gode della complicità dei grandi mezzi di comunicazione, alleati del governo, di alcuni giudici e di funzionari nazionali e provinciali che favoriscono i grandi latifondisti, come Benetton, Lewis e Turner.
  • Il Governo accorre ‘in difesa della proprietà privata’ usando metodi repressivi, disconoscendo i diritti dei popoli, intensificando la violenza sociale e strutturale.
  • Il Governo argentino viola la Costituzione nazionale, la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale sui diritti dei popoli indigeni e, mette gli interessi delle multinazionali come Benetton al di sopra dei diritti dei popoli originari.

Nelle province della Patagonia, l’imprenditore italiano possiede all’incirca un milione di ettari eppure, non pago della propria condizione di latifondista, continua ad aggiungere nuove aree, a costo di espellere le comunità mapuche. Benetton ha chiuso i cammini e ha recintato i terreni, impedendo ai mapuche di condurre le mandrie al pascolo e alle pozze d’acqua; sostiene che quelle terre appartengono all’impresa italiana della Compañía de Tierras del Sur Argentino, con migliaia e migliaia di pecore, piantagioni di soia, attività minerarie, esplorazione e sfruttamento di risorse petrolifere e idriche. Alcuni anni fa la famiglia mapuche di Rosa e Atilio Curiñao si rivoltò contro Benetton, che li aveva espulsi manu militari dalle loro terre, reclamando come propri ben 385 ettari.

Il quotidiano italiano la Repubblica, a Roma, pubblicò una lettera aperta da me inviata a Benetton. Grazie all’eco internazionale, riuscimmo a ottenere una riunione in Campidoglio fra Benetton e i Curiñao, per trovare una soluzione al conflitto, compreso il risarcimento danni, visto che l’impresa Tierras del Sur aveva mandato le ruspe a distruggere la casa e le colture della famiglia. Non si arrivò ad alcuna soluzione. Tuttavia Rosa e Atilio decisero di resistere e tornarono sulle proprie terre, sopportando una repressione e una sorveglianza continue da parte della polizia – che proibiva perfino di accendere il fuoco in pieno inverno. Ma la capacità di resistenza dei Curiñao è grande; sono ancora là.

Quando i Mapuche reclamano i propri diritti, la risposta dello Stato è la repressione, non il dialogo. Facundo Jones Huala, un capo (lonco) mapuche, l’anno scorso è stato processato nella città di Esquel dal giudice federale Guido Otranto che ne ha ordinato la liberazione; ma, cosa inquietante, il tribunale era insediato nella caserma della Gendarmería Nacional. 

Il giovane artigiano argentino Santiago Maldonado, attivista a sostegno dei Mapuche e della liberazione di Facundo Huala, stava partecipando il 1 agosto a una protesta, violentemente repressa dalla Gendarmería Nacional. Inoltre, si sono verificati diversi scontri, e la gerdarmeria è arrivata a ferire persone con proiettili di piombo o di gomma; non sono stati risparmiati nemmeno donne e bambini. Alcuni testimoni hanno riferito che Maldonando è stato prelevato dalla polizia e caricato su una camionetta. A partire da questo momento nessuno sa più dove egli si trovi, e le autorità negano che le forze di polizia abbiano a che vedere con la sua sparizione.

La popolazione, le organizzazioni sociali e quelle dei diritti umani sono mobilitate. Vivo lo hanno preso e vivo lo rivogliamo, gridano in tanti, radunati sulla Plaza de Mayo, insieme ai fratelli e ai familiari di Santiago.

A oltre un mese dalla scomparsa di Santiago, la situazione è angosciante e la soluzione sembra lontana. Il governo continua a negare ogni addebito e cerca di giustificare l’ingiustificabile, usando la violenza contro i manifestanti a Plaza de Mayo, nascondendo i misfatti della Gendarmería, tacendo sulla sparizione del giovane artigiano.

I popoli del mondo, in questo caso il popolo italiano, devono sapere quello che le imprese multinazionali del loro paese fanno in altri paesi: i danni che provocano.

L’azienda Benetton deve dare spiegazioni al popolo italiano e al mondo sulle proprie azioni in paesi terzi. Chissà se avrà l’umiltà e la saggezza di agire con senso di giustizia, riconoscendo che quelle terre non le appartengono, perché sono del «popolo della terra». Espellendo i mapuche dai loro territori, si uccidono i loro valori, la loro cultura, la loro spiritualità. Li si condanna a morte.

La speranza non muore mai e il cammino da percorrere è quello della resistenza e della dignità.

Crollo del Rana Plaza di Savar – Bangladesh

Il 24 aprile 2013 il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh. Da quella strage morirono 1.138 persone e altre duemila furono ferite nel crollo del palazzo dove erano stipati lavoratori tessili. Lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e producevano capi per conto di multinazionali occidentali tra cui anche l’azienda Benetton. Bassi costi di produzione e pochi obblighi da rispettare: comprare in Bangladesh conviene. In un paese in cui l’industria tessile impiega circa 3 milioni di persone, in prevalenza donne, e crea ricchezza quasi esclusivamente per le multinazionali che comprano a prezzi stracciati i suoi prodotti, lo stipendio medio di un operaio si aggira sui 410 dollari l’anno. Ma le fabbriche della morte non si fermano mai.

L’ad di Benetton, ha annunciato la volontà della compagnia di Treviso di risarcire con 1,1 milioni di dollari le vittime del crollo del Rana Plaza in Bangladesh. L’annuncio di Benetton giunge in seguito alla campagna pubblica di oltre un milione di membri dell’organizzazione internazionale Avaaz, che ha spinto la compagnia ad annunciare un risarcimento dopo due anni di rifiuti.

“Il contributo di Benetton – ha spiegato Dalia Hashad, direttore delle Campagne di Avaaz – non è certamente sufficiente a risarcire la morte e le sofferenze causate dai loro vestiti, ma è solo grazie alla richiesta di oltre un milione di persone che hanno finalmente cambiato posizione e deciso di contribuire. Questo introduce un precedente per le imprese di tutto il mondo: quando dei lavoratori muoiono, non ci si può girare dall’altra parte”.

Recommended For You

About the Author: Pisorno