Il voto alle donne, nel 1920

9febbraio 2015 di Paola Ceccotti

donne votoNel 1920 il disegno di legge in discussione alla Camera sulla legge elettorale (Modifiche alle norme concernenti le elezioni amministrative) aveva previsto il diritto di voto amministrativo alle donne, in particolare caldeggiato dai partiti socialisti e popolari.

9febbraio 2015 di Paola Ceccotti

donne corallaieMa per il precipitare della situazione nel paese, con scontri, eccidi, assalti alle istituzioni, Giolitti decise di sciogliere la Camera e di indire nuove elezioni. E con ciò il provvedimento sulla nuova legge elettorale e la previsione di voto alle donne cadde e non passò all’esame del senato, benché avesse avuto una approvazione quasi totale alla Camera con 240 voti a favore e soltanto 10 contrari.

gazzetta-livorneseAll’indomani dell’approvazione alla Camera del disegno di legge Bianca Flury Nencini, giornalista e scrittrice, salutava sulla Gazzetta Livornese la conquista del diritto politico a dispetto delle posizioni avverse di quegli uomini – categoria generale non meglio identificata politicamente – che vi avrebbero visto la distruzione della femminilità, paventando la fine della tranquilla distinzione di ruoli all’interno della famiglia:

(Gli uomini) “…Hanno pianto le ultime lacrime su quella famosa femminilità che riceve dalla scheda l’ultimo colpo di grazia; altri più pratici  hanno pensato con mesto rimpianto al pranzo compromesso da un comizio elettorale o a qualche famigliare ricatto della moglie che agiterà, in estrema difesa una lista da votare contro quella sostenuta dal marito. E hanno già previsto i gravi disordini che terranno dietro a una mattinata perduta a far la coda davanti a una sezione elettorale, mentre a casa il soffritto brucia e il marmocchio strepita reclamando la pappa mattutina. Altri, mirando più lungi del pranzo ritardato e del soffritto arrostito, hanno preveduto il grave disordine che al partito dell’ordine  porterà il diritto ora acquisito della donna, la quale è immatura ad esercitarlo e diverrà strumento cieco di partiti, facile preda del primo che saprà farle vedere lucciole per lanterne.”[1]

Tratteggiava così la questione del voto come fosse una semplice schermaglia tra i sessi, mettendo in evidenza i possibili contrasti che sarebbero potuti nascere in famiglia, ma allo stesso tempo raccomandava alle donne di non lasciarsi attirare dalla propaganda di quei partiti che avrebbero potuto approfittarsi della loro credulità e impreparazione, con sicuro riferimento ai partiti popolare e soprattutto socialista che avevano tenuto conto nei loro programmi dell’emancipazione femminile. Per questo il diritto di voto (amministrativo) ottenuto – perché così  pareva certo in quel momento – doveva ricevere particolare attenzione ed una adeguata formazione che garantisse il suo esercizio in autonomia:

“Occorre dunque prima di tutto vincere l’indifferenza della grande massa femminile perché la funzione del voto quando sarà da noi esercitata, abbia un significato morale oltre un valore numerico di cui profitterà il partito più organizzato. Dovremo fare ora quel lavoro che doveva logicamente procedere la concessione del diritto preparando la donna ad esercitarlo con coscienza per la sua dignità. Perché questo o quel partito  non conti ciecamente su di noi … Si sa che i partiti di avanguardia hanno già sotto mano questa forza nuova da mettere in valore per il trionfo della loro causa. E alcuni credono che la educazione della donna alla nuova funzione del voto consista nella organizzazione per quei partiti che fin qui la trascurarono. Ma non è questo  ciò che per l’elevazione morale della donna deve cercarsi. La disciplina di partito è una bella conquista per il partito che riuscì ad ottenerla; ma non deve essere fine a se stessa e non innalza di un grado il livello morale dell’individuo. Noi vogliamo la donna veramente cosciente di quello che, esercitando il diritto di voto, dimostra di valere: la desideriamo – qualunque fede professi – con una personalità propria e con la facoltà di pensare col proprio cervello.…”[2]

Teresa Labriola figlia del filosofo AntonioEspressione di quel mondo borghese che aveva aderito alle idee nazionaliste contro l’espansione della dottrina socialista, la Flury Nencini come altre figure rappresentative dei movimenti di emancipazione femminile (non ultima Teresa Labriola figlia del filosofo Antonio, propagandista di idee nel campo della emancipazione femminile, nonché giurista, che aderì a posizioni nazionaliste e poi fasciste) subì il fascino di Mussolini, di un regime che  esaltò la donna nella sua funzione materna ponendola al centro del programma di restaurazione della famiglia e di sviluppo della natalità facendone il riferimento di eventi significativi, anche se fu incapace di interrompere un processo di sviluppo della identità femminile, che continuò a rivolgere la sua intelligenza al di là delle pareti domestiche e che si concretizzò poi nella conquista dei diritti politici nel secondo dopoguerra.

Il richiamo di Mussolini fu rivolto proprio verso quella parte della popolazione di estrazione borghese che aveva fornito il consenso alla sua affermazione, esso fondava la sua attrazione sui valori ereditati dal Risorgimento, l’ideale di patria, di unità  nazionale, la famiglia in cui ciascuno è impegnato a porgere il servizio allo stato differentemente secondo la sua posizione e identità di genere.

fascismo Spedizione punitiva a Roma sede sindacale socialistaCon l’inasprirsi della conflittualità sociale a livello nazionale, con l’assalto alle  istituzioni da parte delle squadre fasciste si generò una situazione di estrema crisi che portò Giolitti il 7 aprile alla decisione di sciogliere la Camera, motivando tale scelta con la necessità di tenere nuove elezioni per far partecipare al voto la popolazione dei territori annessi di recente, e per il fatto che la Camera uscita da quelle del 1919 non corrispondeva più alla realtà del paese.

Le elezioni vennero indette per il 15 maggio. Giolitti sperava di ottenere dal risultato elettorale una maggiore rappresentanza a scapito dei partiti socialista e popolare. E in tal  senso favorì con il blocco nazionale – c. d. “listone” – l’alleanza tra liberali e fascisti, con lo scopo di riuscire a coinvolgere questi ultimi nel sistema parlamentare. Egli riteneva di poter servirsi del fascismo per reprimere l’estremismo socialista, creando così le condizioni per un rafforzamento dello stato liberale.

matteotti.La campagna elettorale si svolse in un clima di terrore. Dall’Emilia lo squadrismo fascista al servizio degli agrari si diffuse in Toscana e in Umbria. Un po’ in tutta l’Italia centro settentrionale le squadre d’azione fasciste presero d’assalto le sedi dei sindacati e del partito socialista; esse erano formate prevalentemente di giovani e medio piccolo borghesi, sottoproletari e avventurieri veri e propri.  Matteotti pubblicò in merito nel 1921 l’ “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, sulle  violenze dei fascisti a base di manganello e olio di ricino durante la campagna elettorale di quell’anno.

Quando il fascismo si insediò nelle stanze delle istituzioni sarà proprio la F. Nencini, con la sua attività di giornalista e scrittrice, a farsi  portavoce oltre che delle attività e manifestazioni del  comune di Livorno fascista, di quelle più precisamente femminili, con un continuo appello ai valori della famiglia, pubblicando articoli centrati sulla valorizzazione della figura della donna, sposa e madre, elemento centrale e caratterizzante del nuovo ordine che il fascismo aveva ristabilito, contro i modelli d’oltralpe e quelli proposti nei programmi socialisti. Principi di cui la stessa si era fatta portatrice già anni prima.

donneNella Conferenza su “Le donne nella guerra” organizzata nel febbraio 1917 per conto del Comitato di Livorno Società Nazionale Dante Alighieri per la sovvenzione alla Casa dei Bambini la F.  Nencini che ne era fondatrice e direttrice esprimeva le idee di un femminismo più vicino ad un comitato di beneficenza che all’associazionismo femminile in lotta per i diritti civili e  del lavoro. Precisava nel suo intervento che la marionetta della femminista era stata abbandonata, dimenticata tra i vecchiumi di un passato che pareva ormai lontanissimo nel tempo, una peraltro “detestata marionetta”. E particolarmente detestata perché essa non era “Italiana”, perché la donna latina ha troppo senso della misura per certi eccessi. “La femminilità ha ucciso il femminismo”; ed ecco qual è a suo avviso il ruolo della donna italiana così come dimostrano a suo parere la storia e la leggenda: “sempre accanto al guerriero, sia pure in scorcio o nell’ombra, la donna. Soave figura di consolatrice o di trepida aspettante presso una culla o ad un focolare deserto china la testa alla ineluttabile necessità, che insidia il suo piccolo mondo.”[3]

donna la cucitriceMa la stessa rimarcava che il coraggio femminile ha un valore se è collettivo se è condiviso nella moltitudine delle donne, così la donna italiana che nel momento della guerra e del bisogno, per via della grave situazione, era uscita dalla solitudine della sua individualità di madre e casalinga per affrontare il problema economico e si era misurata con professioni nuove, anche di tipo intellettuale. Ma triste conseguenza era poi diventata così inquieta e disdegnosa delle piccole cure domestiche, desiderosa di misurarsi con l’uomo, di gareggiare con lui nella conquista delle professioni, tanto da essersi “mascolinizzata”, prendendo molti dei difetti dell’uomo. Il suggerimento era quindi quello di ritornare al ruolo che le è proprio: il lavoro di cura. E’ in questo ambito che intravede la rinascita di una donna nuova con il ritorno all’antico, che si fa grande nelle forme moderne della beneficenza. L’ufficio a cui è chiamata la donna è quello che più si addice alla natura femminile: “quello che la mette in contatto col dolore più vivo e avvicina le classi sociali più lontane tra loro, e fa di tutte le forze della nazione – del valore, della pietà, della grazia – una forza sola: dell’ufficio di infermiera… e quando la donna non ha potuto farsi infermiera è stata visitatrice di ospedali”.

Alla fine del suo intervento chiariva meglio il suo pensiero intorno alle giuste aspirazioni e funzioni proprie della donna:

“E che ci darete che valga il pianto di una madre? Il voto? Lo ebbero anche gli analfabeti! L’indipendenza dalla autorizzazione maritale per disporre dei nostri beni? Ognuno che non sia del tutto deficiente dispone dei propri beni! La ricerca di paternità? Non giova soltanto alla donna. Se queste concessioni verranno noi ci rallegreremo del mutato concetto sulla nostra mentalità che vi avrà deciso a riconoscerli diritti nostri. Ma noi non lavorammo per queste meschine conquiste… Una sola conquista vagheggiammo: la vittoria d’Italia. Oggi collaboratrice preziose dell’uomo in tutti i campi dell’attività umana e domani – se altro da noi non si chieda – soltanto donne – regine della nostra casa”[4]

 Donna fascistaC’è in queste considerazioni già tratteggiata la figura della donna fascista orientata verso la nobile attività assistenziale – educativa per il bene della nazione, una espansione all’esterno delle caratteristiche genetiche di cura e della sua propensione a farsi amorevole assistente del “guerriero” e della di lui prole. Una figura che non travalica lo spazio proprio del maschile, di cui al massimo può farsene carico, come straordinaria supplenza, in momenti di particolare emergenza, tornando prontamente alle occupazioni costitutive della femminilità; è nella famiglia che la donna adempie la sua funzione sociale, e non è donna chi non è madre, è il sentimento, e non la ragione, la molla della sua azione.

Tornando alla elezioni del 1921 la F. Nencini fu attiva in campagna elettorale, e  organizzatrice di un patriottico comizio dell’Alleanza Femminile di cui presiedette i lavori al “Rossigni” alla presenza di donne e uomini fascisti e nazionalisti[5]. Nel proseguo della sua attività di scrittrice e giornalista sarà presenza costante e rappresentativa del mondo femminile fascista livornese e in genere di quel partito che dominerà per venti anni la vita italiana seguendone e diffondendone le attività e le manifestazioni più rilevanti. Ma proprio il suo attivismo intellettuale, l’impegno puntuale e continuativo, come si può osservare, mal si accorda al suo appello alla vocazione naturale della donna come pilastro della famiglia, è più invece la dimostrazione di come la donna potesse essere altro dallo stereotipo che aveva proposto.

Dopo le elezioni del 1921 la legge sul voto venne nuovamente presentata e Mussolini ne fu cauto e poco convinto portavoce andando  incontro alla richiesta di numerosi fasci femminili, e senza credere realmente al giusto riconoscimento dei diritti civili e politici delle donne in risposta alle preoccupazione e alle manifestazioni contrarie di esponenti del suo partito affermava cinicamente: “Qualcuno crede che l’estensione del voto alle donne provocherà delle catastrofi. Lo nego. Non ne ha provocato nemmeno, in fin dei conti, quello maschile, perché su undici milioni che dovrebbero esercitare il loro diritto, sei milioni non ci pensano nemmeno. Così accadrà delle donne. La metà  forse vorrà esercitare il proprio diritto al voto.”[6]

donne1La legge n. 2125 del 22 novembre 1925 relativa alla “Ammissione delle donne all’elettorato amministrativo” passò, ma essa era non solo relativa alle sole elezioni amministrative e non politiche ma ulteriormente ridotta rispetto ai precedenti progetti perché riservata a poche categorie di donne. Potevano votare a richiesta coloro che avessero compiuto i 25 anni e fossero decorate al valor civile o militare, benemerite della sanità pubblica, o per altre attività prestate in occasione di pubbliche calamità, o fossero madri e vedove di caduti in  guerra purché avessero la patria potestà o la tutela dei figli, sapessero leggere e scrivere e fossero contribuenti nel comune in cui chiedevano di votare di almeno 100 lire annue. I comuni compilarono gli elenchi elettorali femminili che vennero esposti all’Albo Pretorio. Ma il 12 luglio 1926 venne diramato con un telegramma dal Ministero dell’Interno a tutti i prefetti la comunicazione di sospensione delle elezioni.

fascismo.Già con legge n. 237 del 4 febbraio 1926 era stata istituita la figura del podestà e la consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente ai 5000 abitanti. Con R.d. n. 1910 del 3 settembre 1926 tali norme vennero estese a tutti i Comuni del regno. In base alle nuove disposizioni il podestà veniva nominato con decreto reale, durava in carica 5 anni e poteva essere sempre riconfermato, i consultori facenti parte della consulta municipale erano nominati con decreto prefettizio, direttamente per un terzo e per due terzi su designazione degli enti economici, dei sindacati, delle associazioni locali.

Non solo finiva così la speranza delle donne di ottenere i diritti politici, ma si annullavano le prerogative democratiche e la strada alla dittatura era ormai aperta.

[1] Dopo il voto alle donne, di Bianca Flury Nencini Gazzetta Livornese del 26/27 novembre 1920

[2] Ivi

[3]Le donne nella guerra”. Conferenza di Bianca Flury Nencini, febbraio 1917

[4] Ivi

[5] Gazzetta Livornese, 14 maggio 1921

[6] In I. Vaccai, La donna nel ventennio fascista 1919 – 1943, ed. Vangelista, 1978, pag. 84

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