
In un articolo di “La parola dei socialisti” (settimanale diretto da Cancelli), “Lio” analizza i legami dei giovani borghesi con il fascismo, quella gioventù che fornì una sponda intellettuale alla attività delle squadracce, svolgendo anche un ruolo attivo e partecipando alle spedizioni contro il proletariato ribelle nei quartieri proletari della città.
4marzo 2015 di Paola Ceccotti
Cosa dunque legava i giovani borghesi a questo movimento che faceva della sopraffazione l’arma vincente? “Lio” trova la risposta proprio nel programma dei fasci di combattimento ed in particolare nell’adesione ai principi di quel primo fascismo: l’anticlericalismo, l’ideale repubblicano, l’idea di nazione e l’amor di patria. I fasci di combattimento sorsero in seguito all’adunata, sostenuta dal “Popolo d’Italia”, a Milano il 23 marzo del 1919.
Il programma del movimento univa aspetti socialisteggianti – “presentazione di un progetto di legge che sancisca per tutti i lavoratori italiani la giornata di otto ore”, “imposta progressiva sul capitale”, riforme per avere “assicurazioni globali, soprattutto per il limite di età” – e postulati di tipo politico – il “suffragio universale deve essere integrato coll’estensione del diritto di voto e di eleggibilità alle donne”, “le elezioni generali devono aver luogo con scrutinio di lista e rappresentanza proporzionale” –.
Questi obiettivi erano tenuti insieme dalla radicale avversione alle forme associative del movimento operaio, dall’impegno a combattere il leninismo, dalle parole di Mussolini che spronava i suoi a strappare il proletariato alla sudditanza delle camere del lavoro e dei relativi dirigenti. A quel primo movimento aderirono soprattutto reduci, mutilati e invalidi che per la patria avevano combattuto e che ora a guerra finita stentavano a ritrovare una collocazione nella società, ma anche gli arditi, e i futuristi.
Gli arditi, che socialmente costituivano un gruppo piuttosto eterogeneo con una cultura di livello mediamente basso, erano stati organizzati in truppe d’assalto, ed impiegati nelle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto dando prova di coraggio e disprezzo della morte. Ma terminato il conflitto contro di loro si erano verificate prese di posizione della popolazione per via dei comportamenti antisociali, delle loro indisciplina, molti non riuscirono a reinserirsi e finirono per divenire degli spostati. [1] Mussolini ebbe verso gli arditi viva simpatia fin dall’inizio con un progressivo reciproco intessersi dei rapporti.
I futuristi erano per lo più di estrazione borghese ed avevano una cultura medio alta. Il futurismo da movimento culturale, interventista, aveva assunto un carattere politico con vaghe idee di rinnovamento sociale e rivendicazione nazionale, con motivi anarchicheggianti. Il 20 settembre 1918 aveva visto la luce nella capitale il periodico “Roma futurista” che come sottotitolo portava l’indicazione “giornale del partito politico futurista”. Quel numero pubblicava il manifesto del futuro partito, documento che accoglieva istanze che si sarebbero poi ritrovate nei fasci di combattimento. “Dei fasci di combattimento i futuristi, insieme agli arditi, avrebbero costituito in varie località i primi nuclei, il primo embrione organizzativo”.[2]
I fasci di combattimento di Livorno si richiamavano nel programma pubblicato su “Il Telegrafo” il 22 novembre del 1920, a queste idee rivendicando un ruolo di egemonia e di guida della società; “non vogliamo esser molti, la quantità ci spaventa e ci soffoca, teniamo alla qualità del numero”, si affermava nel programma esprimendo il sentimento di appartenere ad una èlite.
“Lio” rivolgendosi ai giovani fascisti si dimostra fiducioso che il loro comportamento possa cambiare, addirittura cerca quasi di giustificare certi eccessi ritenendo possibile un affrancamento dalle loro tristi prestazioni. In fondo, dice, si tratta di giovani appena usciti dai licei con il solo torto di essersi fatti soggiogare da cattivi maestri che ne hanno strumentalizzato l’intemperanza e l’esuberanza proprie dell’età per i propri fini; ragazzacci dunque, anche se di buona famiglia, da rieducare ma non perduti. Il forte legame con i valori risorgimentali e quindi la difesa dell’amor di patria, sarebbero stati secondo Lio il presupposto delle violente reazioni contro chi propagandava invece ideali diversi, l’umanitarismo e l’internazionalismo, che non trovavano confini geografici e che in primo piano ponevano il popolo, o meglio il proletariato vittorioso. L’appello un po’ ingenuo di “Lio” in un clima di tanto acuta crisi sociale suona come messaggio utopico, irrealizzabile, dettato dalla ingenua fiducia nel progresso e nell’inarrestabile cammino della storia verso il miglioramento non solo delle condizioni di vita ma della moralità.
“Fra i giovani fascisti non c’è dubbio che non ci siano degli ottimi ragazzi … Digiuni affatto di realtà contingente, sono saturi di romanticismo, e chi non condivide questa fede eroica nel passato, lo credono senz’altro un nemico della patria. In questi giovani questa concezione si spiega facilmente, perché usciti appena dai ginnasi, … si attaccano con tenacità ai sentimenti idealistici che più li toccano il cuore … Quindi il proletariato che per ragioni antitetiche non la pensa come loro lo credono un nemico dichiarato… Questo stato psicologico dei nostri giovani fascisti ,viene sfruttato con molta pervicacia dalle classi borghesi dirigenti, soffiando sul fuoco dell’antisocialismo in nome del sentimento di patria offeso…”[3] Auspicava con la fede solida di un terziario francescano che una volta resesi conto dell’inganno i giovani fascisti si sarebbero incamminati sulla strada della “repubblica sociale” abbandonando gli oscuri manovratori, avendo a loro fianco i socialisti, tranne essere smentito di li a poco.