24 ottobre 1917, Caporetto- 24 ottobre 1918, Vittorio Veneto
24ottobre 2015 di Paola Ceccotti
Dopo la battaglia della Bainsizza l’Alto Comando Austro -Ungarico chiese all’alleato tedesco l’aiuto per una offensiva di alleggerimento che costringesse gli italiani ad arretrare. Il Comando tedesco rendendosi conto della necessità di impedire il crollo degli austriaci rispose alla richiesta inviando la XIV armata con 7 divisioni, artiglierie, e i mezzi necessari, purché questi fossero poi ritirati e resi disponibili per la preparazione dell’offensiva sul fronte occidentale nella primavera del ’18.
Nel 1917 i tedeschi misero a punto una strategia che giocava sulla sorpresa tattica, sulla neutralizzazione delle comunicazioni tra le truppe e il comando e sulla infiltrazione nelle trincee nemiche. Il 24 ottobre 1917 gli Austriaci e le sette divisioni tedesche sfondarono le linee italiane nei pressi di Caporetto (oggi la slovena Kobarid) penetrando in profondità per centocinquanta chilometri. Gli ordini per la ritirata generale furono preparati la sera del 25 , sospesi poi sperando in un recupero, e quindi emanati definitivamente nella notte tra il 26 e il 27. Lo sfondamento del fronte provocò la rotta disordinata di centinaia di migliaia di soldati insieme a colonne di profughi con i pochi beni che erano riusciti a recuperare caricati sui carri, mentre gli austro tedeschi facevano un grande bottino in armi, materiali, e prigionieri. La linea del fronte italiano prima spostatasi sul Tagliamento si attestò sul Piave dove fu opposta strenua resistenza riuscendo a contenere l’espansione austro tedesca.
Cadorna, capo di stato maggiore, scaricò subito la responsabilità della sconfitta; la mattina del 25 telegrafò a Roma la notizia secondo cui i reparti avevano abbandonato le posizioni senza difenderle e il 27 comunicava al presidente del consiglio Boselli che l’esercito era caduto non a causa del nemico esterno ma di quello interno, parlo di viltà dei militari, di disfattisti sostenuti da socialisti e cattolici. In realtà, come venne appurato, le responsabilità erano attribuibili al comando di stato maggiore, alla mancanza nel coordinamento e nella direzione delle manovre, alla gestione unicamente repressiva di Cadorna verso le truppe, ed anche alle rivalità personali tra i generali.
Ecco come la vicenda venne vissuta dal soldato di cavalleria Anchise Breschi livornese, classe 1895, uno fra i tanti militari fatti prigionieri dagli austriaci a Caporetto ed abbandonato poi al destino dal Governo di Roma in uno dei campi di prigionia, fino al termine del conflitto, come risulta dal suo racconto di quei giorni, ritrovato dal figlio.
“Da radio – gavetta, circolava voce che il fronte avesse ceduto sull’Isonzo, ma non avevamo idea di cosa veramente stesse accadendo. C’era molta agitazione al Comando di Reggimento. La mia squadra ricevette l’ordine di partire immediatamente e pattugliare il ponte di Livenza, passaggio obbligato per un’eventuale ritirata delle truppe. Ricordo che ci mettemmo in marcia con i cavalli, al piccolo trotto. Pioveva già dalla mattina ed ero bagnato fin dalle ossa, mentre il cavallo si scoteva inquieto” si legge negli appunti.
E ancora: “Mano a mano che avanzavamo, s’udiva sempre più distinto ed insistente il rumore delle cannonate. Qui si mette male pensavo. Quando infine giungemmo a poca distanza dal ponte, sul fiume, ci rendemmo conto della gravità della situazione. Una vera fiumana di soldati e civili si riversava dal ponte verso la piana, una confusione indescrivibile di rumori, nella quale si perdevano le voci di comandi all’ordine da parte d’alcuni ufficiali. Non sapevamo cosa fare. Arginare quella fiumana di fuggiaschi era impossibile. I cavalli erano agitati e faticavamo a controllarli. Anche il caporale che ci guidava non sapeva quale decisione prendere… Sentimmo improvvisamente come dei latrati, prima lontani, poi sempre più vicini. Erano le voci rauche di comando degli Austriaci che si stavano avvicinando. Dunque, eravamo in trappola.”1
Anchise come gli altri fatti prigionieri venne dimenticato nei campi d prigionia, perché il comando italiano, a differenza di quello francese, non ritenne di far arrivare i pacchi di viveri, i rifornimenti, che sarebbero stati necessari alla sopravvivenza, visto che il nemico che li teneva prigionieri non ne aveva a sufficienza per le sue truppe. In più, doppia delusione, quando tornarono ebbero l’accoglienza che si riserva a chi “ha peccato contro la patria” (D’Annunzio). La propaganda si occupò della prigionia solo per ribadirne il carattere disonorante. “Il disastro di Caporetto, in cui 280.000 soldati caddero nelle mani del nemico, suggellò questa riprovazione: la responsabilità della disfatta era di chi si era arreso senza combattere o peggio aveva tradito”.2
La disfatta ebbe gravi conseguenze sul governo e sul Comando supremo e Cadorna venne sostituito con il generale Armando Diaz. Ma la minaccia di invasione era concreta ed anche i socialisti riformisti Turati e Treves esortarono alla resistenza, distaccandosi da ogni ipotesi di interpretazione eversiva della rotta di Caporetto.
Per far fronte alle perdite umane venne chiamata la leva del 1899.
La difesa sul monte Grappa e sul Piave, con limitati aiuti franco britannici, impedì che l’irruzione austro tedesca si estendesse alla Pianura Padana e nei mesi successivi l’esercito imperiale andò incontro ad un crollo su tutti i fronti.
Il 24 ottobre del 1918 il generale Diaz ordinò a Vittorio Veneto l’offensiva generale che ne provocò la definitiva disfatta; il 4 novembre emanò il “bollettino della vittoria” che “venne riprodotto in migliaia di lapidi e imparato a memoria da due generazioni di studenti”.3 La situazione nelle terre invase dopo la rotta di Caporetto è testimoniata dai documenti dei protagonisti di questa vicenda, come nel diario attribuibile alla maestra di Follina:
“Continuo e denso passaggio di truppe o carriaggi austriaci e germanici sotto una pioggia dirotta… Cominciano le depredazioni e la rapina dei viveri e d’altra roba nelle case abbandonate e anche in quelle abitate. Alle prime ore del mattino due soldati germanici sfondano la porta dell’ufficio postale per prendere una bicicletta che era all’interno. In poche ore vengono portate vie le biciclette, i cavalli, i rotabili di ogni genere. Le case dei contadini in specie dove si trova ancora il raccolto dell’annata, sono completamente saccheggiate. Mucche, maiali, pecore, granoturco, frumento, patate, vino, biancheria, vestiti, tutto, tutto è buono, tutto serve, di tutto si ruba.”4
Elio Nerucci giovane pistoiese chiamato alla guerra a ventisei anni rende nelle pagine del suo diario viva testimonianza di quei giorni di sofferenza, smarrimento, in cui soldati e popolazione dovettero affrontare l’emergenza della lotta per la vita, quando ogni regola e quotidianità viene travolta dalla brutalità degli eventi. Eppure nelle pagine di quel quadernino in cui Elio ha trascritto le sue impressioni in lingua talvolta sgrammaticata e a cui la figlia ha provveduto a conferire una stesura omogenea, si avverte che insieme allo stupore, alla costernazione, c’è un comune sentire con la partecipazione al dolore degli altri; i vincoli umanitari legano gli attori di quella grande tragedia dando vita ad un corale grido di dolore.
Alcuni brani del diario:5
“Nei giorni ventitré e ventiquattro e nella notte del venticinque, il nemico aumentò il tiro di distruzione e logoramento. Tanto che c’era un sibilo continuo seguito da un rullo tambureggiante di colpi di cannone di ogni calibro. Noi si rispondeva solo con qualche colpo. In lontananza sentivamo, sulla nostra sinistra, che infuriava una gran battaglia con spari di mitraglia e fucileria… Il giorno venticinque, alle undici, venne l’ordine di prepararci per spostarsi da quelle posizioni. Il ventisette il nostro comandante credé inopportuno fare resistenza, perché eravamo minacciati di accerchiamento. Alle undici ci giunse ordine di rimetterci in marcia. Ci diedero un po’ di riso cotto nell’acqua e un po’ di Torigiana. Alle dodici si ripartì e ci fecero fare marcia indietro sulla via che avevamo fatto il giorno prima. Camminando fino a sera inoltrata, si passò da tanti paesi. E la folla di borghesi piangeva al nostro passaggio, perché il nemico non avrebbe tardato tanto ad arrivare alle loro case. I signori erano già scappati quasi tutti. Ma la povera gente, senza mezzi di trasporto, doveva restare lì e aspettare la sorte che gli toccava. Erano fanciulli, donne, vecchi, costernati dal dolore per l’invasione tedesca. Ma la nostra triste storia non ci dava sosta. Alle due del mattino venne l’ordine di rimettersi di nuovo in marcia per andare ancora indietro e portarsi aldilà del Tagliamento. Ma soprattutto per non farsi prendere prigionieri. Partimmo sotto una fitta pioggia che in poche ore rese le nostre vesti zuppe d’acqua.
Ma io mi sentivo così giù di forze, che mi ero accorto che non potevo andare più avanti. A rimanere lì mi dispiaceva lasciare gli amici: e poi restare nelle mani del nemico! Ma la fortuna mi volle assistere. In quel momento così triste si avvicinò un bambino. Mi guardò e mi disse: “Vi sentite male soldato?”. Io lo guardai e gli risposi: “Puteo -in dialetto- ho tanta fame”. Quel bambino partì a corsa avanti a noi. Dopo trecento metri si riavvicinò e mi diede un bel pezzo di pane alla contadina. Non potei trattenere le lacrime. Lo presi in braccio, lo baciai e gli dissi: “Tu mi hai salvato la vita. Sei stato tanto bravo. Il Dio ti darà sempre fortuna!”. Di tanto in tanto davo un morso a quel pane e una bevuta nelle fosse lungo la strada. L’acqua non mancava, perché pioveva a dirotto. Era gialla, ma la sete è brutta.… Si venne pochi chilometri sopra Schio. Ci colpì la Spagnola . Morirono molti ufficiali, tanto che una sera il colonnello mi mandò a Schio, nella stanza mortuaria, a portare due candele. Fra i tanti morti c’era il tenente Niccolai di Pisa, del mio reggimento. Ma ormai io avevo salvato la vita.
…Nel gennaio si partì da Schio e a forza di marce si rientrò a Livorno. A tutte le tappe che si faceva alto ci avevano preparato grandi feste. Si fece tappa pure a Pistoia e Montecatini. Sulla salita della strada che porta a Collodi, ci si fermò per due ore: sigarette, da bere, paste e panini imbottiti. Vicino a Lucca balli in molte case. Poi a Livorno un gran ricevimento e banchetto. Non pensavo mai però che finita la guerra il quattro novembre, a causa del Tribunale militare, avrei dovuto restare ancora sotto le armi fino al sedici agosto 1919. Alla fine non ho avuto né medaglia al valore, né pacco vestiario e nemmeno premi di congedo solo per aver avuto la scapataggine di scrivere quella lettera6 senza alcun fine di male. Spero che almeno la croce al merito mi verrà concessa. Questo non è un romanzo, ma il racconto della vita che trascorsi dal diciassette agosto 1916 al sedici agosto 1919. Elio Nerucci”
I reduci sperimentarono il senso di estraneità, il non poter condividere l’esperienza di morte vissuta al fronte per l’impossibilità di tradurre in forme efficaci l’orrore della guerra. Sono forse certi dipinti in cui la realtà irrompe senza mediazioni, che meglio arrivano a comunicare in modo più immediato la carneficina della guerra e l’indifferenza della comunità ai dolori di chi l’ha sofferta.
Note:
- 1. http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/11/05/news/cosi-mi-travolse-la-disfatta-di-caporetto-diario-di-anchise-soldato-livornese-1.1024643
- 2. e 3. Ivi, pag. 468
- 4. Follina. dal diario della maestra A. Calcinoni sabato 10 novembre 1917, in http://www.14-18.it/diario/Ms_11_5_001
- 5. Elio Nerucci, Pinocchio in trincea – diario di un soldato toscano nella grande guerra, in:.http://www.nove.firenze.it/guerra/
- 6. Ivi, “Nel tempo che mi trovavo a quel servizio scrissi una lettera alla famiglia. Gli dicevo che non stessero in pensiero, perché ero al sicuro (tanto per farli stare contenti) e in un punto della lettera spiegavo il servizio che facevo con le segnalazioni. Senza pensare al danno che potevo fare, mi venne detto che quando lanciavo un razzo con tre stelle verdi, le nostre artiglierie facevano fuoco. Quando la lettera passò alla censura, per la scapataggine di quella frase mi denunciarono al Tribunale di guerra.”