Crisi venezuelana: informazione pubblica al servizio dei cittadini o degli interessi dei potentati economici?

I principali media nazionali ed internazionali stanno rappresentando le tensioni interne al Venezuela come lo scontro fra ampi settori della popolazione in preda alla disperazione a causa della crisi economica e di un governo antidemocratico che, insensibile alle richieste di dimissioni, tenta di reprimere le proteste facendo ricorso anche alla violenza

23aprile 2017 da Andrea Vento, Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Purtroppo, ancora una volta, ci troviamo in presenza di una strategia di destabilizzazione attuata da alcuni settori dell’opposizione, appoggiati dall’esterno e sostenuti da una potente campagna mediatica internazionale, come già avvenuto in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011 e quella tutt’ora in atto in Siria, che sta fornendo una narrazione della vicenda molto distante dal sua effettiva realtà. Tale strategia non risulta nemmeno particolarmente segreta tant’è che l’opposizione golpista ha più volte dichiarato dopo la vittoria alle elezioni legislative del 6dicembre 2015 di voler destituire il presidente Maduro, regolarmente eletto nel 2013 dopo la morte di Chavez. Deposizione, che l’opposizione non essendo in grado di conseguire attraverso i percorsi istituzionali (referendum revocatorio di metà mandato previsto dalla costituzione), tenta nuovamente di ottenere attraverso la guerriglia urbana col sostegno, politico e mediatico, internazionale.

Le proteste iniziate nel 2014 nello stato di Tachira (alla frontiera con la Colombia) sono state successivamente estese in altre parti del paese con un tragico bilancio che è stato, in quella prima fase, di 43morti e oltre 800feriti. Molte delle vittime sono cadute nelle trappole delle “guarimbas”, barricate di chiodi e filo spinato teso da un lato all’altro delle strade ai danni dei malcapitati passanti. Fallita la via costituzionale, le azioni di piazza sono riprese in questi ultimi mesi subendo un’accelerazione nelle ultime settimane con il chiaro intento di dare la spallata finale al governo Maduro e con esso all’intero processo di integrazione latinoamericano Sud-Sud imperniato sull’Alba e sul Petrocaribe. Di fronte a tale campagna mediatica attuata proponendo esclusivamente filmati delle televisioni private venezuelane, gli interrogativi che il cittadino consapevole si pone, vedendo tali immagini trasmesse anche dai canali Rai che riprendono i manifestanti, in grande maggioranza bianchi e ben vestiti, non può non essere

“..ma chi sono costoro e perché vogliono la caduta del governo bolivariano che ha sempre operato nell’interesse dei ceti subalterni e che nonostante la crisi economica legata alla caduta del prezzo del petrolio ha aumentato ulteriormente la spesa sociale negli ultimi mesi portandola addirittura al 70% degli introiti petroliferi..?”. 

I “guarimberos” sono i rampolli dell’oligarchia del paese con le maggiori risorse petrolifere del pianeta, da tempo addestrati per una violenza urbana che distrugge le infrastrutture pubbliche e private. E’ una violenza ben organizzata, dotata non raramente di giubbotti antiproiettile, maschere antigas, ordigni lancia petardi e abbigliamento non raramente griffato.

“Il paramilitarismo bene venezuelano” ha escogitato eccellenti pratiche di sabotaggio, come quella di tendere cavi di acciaio su strade e autostrade, dove sono morte persone che si spostavano in moto o in scooter per andare al lavoro, come attestato dai video in fondo all’articolo. Questo para-militarismo dei quartieri benestanti, sostenuta da un apparato mediatico privato che non ha pari, aborre la scuola (vedi foto) e la sanità pubblica e si batte per quella privata (che le appartiene).

Recentemente, giovedì 20 aprile, un manipolo di para-militari ha attaccato a Caracas un ospedale pediatrico pubblico (l’Ospedale Materno Infantile di El Valle di Caracas) e lo ha distrutto. Gli oltre 50 neonati sono stati messi in salvo ed evacuati in un altro ospedale. Perfettamente intatto è rimasto l’adiacente McDonald.

I quartieri benestanti delle città venezuelane, sono generalmente circondati da enormi favelas con una popolazione ben più consistente: a Caracas, il rapporto è più o meno di 1 a 6. Un milione o poco meno vive in centro, circa 6 milioni vivono intorno, nelle favelas. Le proteste non sono nelle favelas, ma nelle zone del centro. Negli ultimi 18 anni con l’insediamento alla presidenza di Chavez e successivamente di Maduro, il Venezuela, secondo l’Onu, ha registrato i maggiori successi al mondo nelle politiche sociali che si sono concretizzati nello sradicamento dell’analfabetismo, nell’abbattimento della povertà (-22%) (Grafico 1)  e soprattutto nella mortalità infantile che si è ridotta, fra il 1999 e il 2012,  del 49% passando dal 19,1 al 10%.

Grafico 1: la diminuzione percentuale della povertà nel periodo 2000-2010 in America Latina

I governi Bolivariani, fra le varie conquiste, possono annoverare un considerevole aumento del tasso di scolarizzazione nelle scuole superiori (Grafico 2) che è passato dal 56,3% del 2000 al 73,3% del 2011 e del numero di studenti universitari (Grafico 3) che è stato incrementato dagli  895.000 nel 2000 ai 2,3 milioni del 2011, grazie anche alla istituzione di nuovi atenei, oltre ad un aumento della speranza di vita media da 72,2 anni nel 1999 a 74,3 anni nel 2011.

Grafico 2: la percentuale di iscritti nelle scuole venezuelane di diverso grado nel periodo 1990/2011
Grafico 3: il numero di iscritti nelle università venezuelane nel periodo 1990/2011

Il progresso sociale dei ceti inferiori è stato ottenuto grazie alla ridistribuzione dei proventi del petrolio, le cui royalties furono ricontrattate da Chavez con le multinazionali straniere innalzandole rispetto ai livelli irrisori precedenti e all’estensione del controllo governativo sulla società petrolifera di stato, PDVSA, avvenuto nel 2002, che ha prodotto un sensibile aumento delle entrate pubbliche consentendo un incremento, dall’11,3% nel 1998 al 22,8 % del PIL nel 2011, della spesa sociale (Grafico 4) e una marcata riduzione della disoccupazione (Grafico 5).

Grafico 4: la  variazione della spesa sociale in percentuale rispetto al Pil

 

Grafico 5: andamento della disoccupazione prima e dopo il controllo governativo di PDVSA

Il crollo delle quotazioni del petrolio, che ha sempre costituito la fonte principale di ingressi valutari, ha reso più complicata la situazione. A ciò si sono aggiunte le mai sopite velleità golpiste dell’oligarchia locale, la stessa che aveva fallito nel tentativo di scalzare Ugo Chavez nel 2002. Non casuale risulta la coincidenza temporale fra la caduta del prezzo del petrolio e l’inizio della prima fase delle proteste, entrambe avvenute ad inizio 2014. Accaparramento di merci, serrate, speculazioni sul cambio valutario, sono state le mosse dell’oligarchia sostenute da USA e altri paesi europei nel tentativo di far saltare l’esperimento venezuelano, che per primo ha ridato all’America Meridionale qualche prospettiva di emancipazione dalla subalternità neocoloniale durata fino alla fine del ‘900.

Certamente il chavismo non è stato indenne da errori. In particolare l’incapacità di far decollare una produzione interna che consentisse di emancipare il paese dalla rendita petrolifera e dall’importazione: tutt’oggi i proventi della vendita del petrolio coprono ancora circa il 95% del totale dell’export venezuelano e rappresentano circa il 40% delle entrate del bilancio statale. E’, tuttavia, indubbio che non costituisca opera semplice gestire un cambiamento culturale per un popolo che per 200anni ha dovuto sottostare alla divisione internazionale del lavoro stabilita a Washington, per la quale, il Venezuela, in quanto dotato così abbondantemente della risorsa petrolifera doveva esportarla a buon prezzo garantendone i proventi sufficienti all’oligarchia e diventare un semplice acquirente e importatore di merci Usa ed europee dimenticando ogni velleità di diventare anche un paese manifatturiero e trasformatore di prodotti di base, fatta eccezione per il settore delle costruzioni, quello che conferisce la cartolina di modernità ai centri metropolitani abitati dalle elites, non dagli altri milioni nelle favelas.

Lo sviluppo venezuelano del dopoguerra è stato questo: sviluppo urbano con eccellente qualità nei centri principali. Fuori solo povertà e marginalizzazione sociale. Poi è arrivato il tentativo di Chavez di trasformare il Venezuela in un paese “normale”; è questo che ha scatenato le forze dell’imperialismo e dell’oligarchia subalterna interna, le stesse che oggi tentano di mettere nuovamente le mani sulla risorsa petrolifera nazionale. 

La nuova ondata di proteste, già riprese da alcuni mesi, sono ulteriormente rinvigorite in queste ultime settimane a seguito del cambio di linea, da isolazionista ad interventista, attuato dall’amministrazione Trump che ha fornito nuova linfa alle strategie golpiste sostenute da una massiccia campagna mediatica tesa a screditare il governo Maduro presso l’opinione pubblica mondiale.

Per avere un quadro più realistico della complessa situazione venezuelana e sui reali intenti delle parti in conflitto può indubbiamente risultare utile analizzare l’operato di Papa Bergoglio che sin dal 2014 si è speso personalmente per una soluzione pacifica della crisi, inviando, nel novembre 2016, l’arcivescovo Claudio Maria Celli a Caracas per favorire il dialogo tra il presidente Maduro (peraltro ricevuto in Vaticano a gennaio) e l’opposizione. Dialogo che, nonostante l’egida del Vaticano e dell’Unasur (Unione delle Nazioni Sud Americane), la parte più oltranzista dell’opposizione continua a rifiutare preferendo riaprire la stagione delle “guarimbas” e della strategia golpista con il sostegno dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) e del suo segretario Almagro, lontano dal ruolo super partes che la carica richiede e sempre più allineato sulle posizioni della Casa Bianca. Informazioni fondamentali indispensabili a comprendere la complessa situazione in atto e che al cittadino italiano vengono negate anche dal servizio radiotelevisivo pubblico che continua a trasmettere esclusivamente servizi faziosi delle Tv private venezuelane commentati, dietro evidenti input politici, da giornalisti seduti dietro le loro scrivanie nelle sedi Rai, senza verificare sul campo la veridicità e l’attendibilità di ciò che mandano in onda, contravvenendo al codice deontologico della categoria che prevede l’accertamento dei fatti e diritto di parola per entrambe delle parti in causa.

Possiamo continuare a chiamare tutto ciò servizio pubblico pluralista nell’interesse della collettività o si tratta di strumentalizzazione dell’informazione a vantaggio di interessi economici e geopolitici?

Approfondimento: la situazione dell’emittenza in Venezuela.

  • Il Venezuela viene dipinto come quel luogo dove il governo controlla in maniera ferrea i mezzi di comunicazione che cercano di fare il proprio lavoro. Un’egemonia comunicativa del governo nei confronti dei media privati.
  • Alcuni dati possono aiutarci a fotografare meglio la situazione. Secondo quanto reso noto dalla Commissione Nazionale delle Telecomunicazioni del Venezuela (Conatel), nel paese sono attive – anno 2015 – le seguenti concessioni: 876 emittenti radiofoniche, di cui 262 comunitarie, 98 statali e 516 private.
  •  Situazione simile per quanto riguarda le concessioni televisive: 44 sono comunitarie, 96 pubbliche e 198 private.
  • Lo scenario non cambia se andiamo ad analizzare la carta stampata: in questo settore abbiamo ben 98 pubblicazioni appartenenti al mondo privato, contro le appena 7 di proprietà dello stato.

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