10-11 maggio 1849. I moti di resistenza a Livorno. Quanti conoscono da quale pensiero intellettuale furono sorretti?
28maggio 2016 di Ennio Succi
Ieri, ho partecipato alla presentazione del volume “Carlo Bini – Tutti gli scritti”, a cura di Roberto Antonini, Patrizia Cascinelli e Roberto Goracci, con un saggio introduttivo di Mario Baglini, edizioni Erasmo, Livorno, 2016… Un incontro gradevole, dove ho scoperto una parte di Storia della città pochissimo nota.
“Ho preso alcuni appunti dalla introduzione, a parer mio, riassumono lo spirito del dibattito e molte esigenze attuali che, come cittadini avvertiamo come essere ancora attuali”
Carlo Bini nasce a Livorno il 1 dicembre 1806 e muore a Carrara, il 12 novembre 1842. E stato scrittore e patriota italiano.
Frequentò il collegio dei Barnabiti (chiesa di S. Sebastiano) dove divenne amico di personaggi come Francesco Domenico Guerrazzi. Per problemi economici lasciò la scuola e intraprese l’attività di commerciante lavorando con il padre al suo banco di grani e cereali.
Autodidatta, imparò greco e latino, ma anche tedesco, francese e inglese. Tradusse Byron e Sterne. Mente aperta, con Guerrazzi ideò il giornale politico letterario ” L’ Indicatore Livornese“, da loro diretto fino al 1830, e tre anni dopo furono arrestati per i legami stretti con Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia. Nel carcere di Portoferraio, in cui rimase dal settembre al dicembre 1833, scrisse “Il Forte della Stella”, dialogo che deve il suo titolo al nome stesso della prigione, e il Manoscritto di un prigioniero.
Carlo Bini è tra gli scrittori più rilevanti dell’Ottocento livornese, probabilmente il più originale e il più fresco, capace di guardare ancora all’oggi, dopo circa due secoli.
La Livorno di allora è molto diversa da quella odierna, in quanto aveva in sé forze intellettuali di grande rilievo. Era guidata da una borghesia colta, come non è mai più accaduto. C’erano Guerrazzi, Angelica Palli, Antonio Benci, che scrivevano romanzi e poemi. C’erano grandi saggisti conosciuti in tutta Italia ed anche fuori d’Italia, come Mayer, Giuseppe Micali, Giuliani Ricci. C’erano musicisti, pittori, scultori, come Antonio Vasevi, Pollastrini, Paolo Emilio Demi, Per citare solo i maggiori. C’erano mercanti intelligenti, innovatori e colti, come gli Uzieri, Paciotti. Insomma, nonostante la fase difficile, siamo agli inizi dei moti risorgimentali, anni Trenta-Quaranta del’Ottocento, era una bella Livorno, operosa, intelligente e, per usare un’espressione di Giuliano Ricci, una città “energica”.
Carlo Bini fu considerato da tutti questi uomini e donne di valore, con grande rispetto e ammirazione. In qualche modo, defilato e schivo, fu un punto di riferimento, una personalità onorata e stimata dai migliori, e non solo a Livorno, e da quella strana e inconsueta graduatoria di nomi, raccolti nelle liste di coloro che prenotarono una copia della prima edizione dei suoi scritti, un anno dopo la sua morte.
In tale elenco, infatti, compaiono mazziniani di lunga data, riformisti moderati anti-mazziniani, ferventi uomini di fede e laici, o atei che polemizzavano contro tutte le religioni, letterati e uomini politici di fama nazionale e internazionale, come Alessandro Manzoni o Vincenzo Gioberti, nonché oscuri personaggi locali, commercianti facoltosi e popolani.
Tutto ciò non significa che gli scritti di Bini fossero una specie di poltiglia che contentava tutti, al contrario. Nessuno, come lui, almeno nella letteratura di questa fase dell’Ottocento, non solo livornese, fu capace di posizioni nette e inequivocabili, a favore dei poveri, della loro emancipazione, della uguaglianza fra gli uomini e le donne, della libertà dei sentimenti. Fu critico feroce della vigliaccheria, intellettuale e morale, del conformismo.
Si può dire che fu stimato perché anche gli aspetti del suo pensiero che stridevano di più con la mentalità del suo tempo (come il coerente e fermo materialismo che impronta le sue opere maggiori ove non fa sconti a nessuno, né a Dio, né alla stabilità sociale o al timore della rivoluzione che auspicava) mai erano, in
lui, elemento che occultava la complessità della vita umana, le contraddizioni di essa e la pietà con cui devono essere trattati i limiti dell’esistere. Al fondo dei suoi scritti c’è un amore profondo per la purezza, per la gentilezza, per l’onestà e per il disinteresse nelle azioni e nei sentimenti.
Indubbiamente, fu apprezzato anche perché scriveva bene, cosa rara. Scriveva con una leggerezza ironica e autocritica, che per quei tempi, così veementi e unilaterali, fatti come erano di passioni rappresentate sotto forma di schema romantico, era come una pietra preziosissima, quasi introvabile nella letteratura italiana di allora e, perché no, di oggi.
E’ stato un uomo molto contraddittorio. Ha vissuto una vita breve (trentasei anni) dolorosa, in quanto è stato malato quasi sempre, vivendo gli ultimi anni in uno stato penoso, in cui doveva essere accompagnato, passando lunghi periodi a letto, senza riuscire ad alzarsi. Ma anche in questi casi era ironico, diceva ad esempio:
“il letto mi guarda, mi vuole lì ed io mi ci stendo”.
Contraddittorio abbiamo detto, ma si potrebbe dire che gli esseri umani tutti lo sono. Anche nel roccioso Guerrazzi, tribunizio nella sua retorica tutta scolpita, ogni tanto affiorano debolezze, il lasciarsi andare ad intime riflessioni sulle proprie paure. Carlo Bini, però, a differenza degli uomini del suo tempo, non occultò le sue contraddizioni, le espresse, lasciandole scorrere negli scritti. Non vi si oppose. Deriva da ciò che la critica degli scritti biniani, alcune volte sottolinea una cosa o l’altra, come se quella fosse la chiave. Ma Bini non è semplificabile, pena un’offesa grande alla sua memoria e lascito culturale. Un esempio: lui fu molto convinto della inevitabilità e della necessità di una rivoluzione, che abbattesse l’ignominia sociale e morale della disuguaglianza tra gli uomini.
E’ stato l’unico intellettuale risorgimentale che ha conosciuto pienamente i poveri, non il popolo di cui sono pieni gli scritti di questo suo periodo. Quel popolo generico, come cosa vaga anche nella sua ambiguità tendente ad isolare la parte che, sprezzantemente, veniva definita plebe. Pur sapendo che nel popolo ci fosse la “feccia plebea”, è sempre stato in mezzo ai poveri, anche quando era ben ricevuto, perché ammirato e richiesto, nei salotti letterarii borghesi.
Della immensa distesa dei poveri e degli umiliati, egli conosceva tutti i risvolti, quelli nobili e quelli meno nobili. A tal proposito, l’unica cosa di Guerrazzi che pare qua azzeccata è che scrisse, in una delle tante epigrafe su Bini:
“non nutrì mai nei confronti del popolo una fiducia cieca, ma non disperò mai nemmeno”
Bini si impegnò politicamente nelle battaglie risorgimentali, ma sapeva bene che il problema non era solo quello dell’unità e dell’indipendenza dell’Italia, bensì un problema universale, che riguardava il mondo e la civiltà, che gli uomini dovevano costruire. Benché si impegnasse “per fare”, schierandosi chiaramente, nutrì poca speranza che tutte le forme politiche organizzate fossero utili strumenti di battaglia, tesi ad accelerare lo scoppio, per esempio, di quella scintilla rivoluzionaria che riteneva ineliminabile.
Al fondo, pensava che i tempi maturano per conto loro, in una maniera non facile da decifrare. Riflessione che, al presente, dà una forte inquietudine a noi, suoi lettori. Gli uomini si agitano per anticipare i tempi, o per ritardarli, ma tutto ciò non scalfisce il corso degli eventi. Qua sta Bini, l’uomo impegnato, ma senza troppa fiducia sulle possibilità mutevoli di quell’impegno. Eppure è impegnato, perché si deve esserlo, perché si deve, comunque, partecipare. Una buona chiave di lettura questa, per ritenere opportuna la riproposizione delle opere di Carlo Bini, indice di quanto sia utile che questo autore sia letto, uscendo dall’oblio.
Si passano tempi oscuri, in cui nella città di Livorno, ma in tutta Italia, pochi si ricordano qualcosa del proprio passato. Si guarda avanti, o ai nostri piedi quello che abbiamo oggi, ma la memoria, la ricostruzione, la coscienza che si è venuta formando, grazie anche alle vite degli uomini che hanno dedicato la loro energia alla riflessione, sembrano scomparse dalla scena.
Leggere Carlo Bini è utile, e nella lettura dei suoi scritti troveremo un “amico”, un amico “buono”, con il quale si può sorridere, ci si può commuovere e questa lettura ci lascia sempre stimolati a pensare, a ragionare su qualcosa.