Italia ed Egitto: di realpolitik si può solo morire, gli strafalcioni di Renzi

egittoDiplomazia italiana. L’islamismo è un fattore che nasce e prospera per cause profonde. Prima in Algeria e poi in Egitto la vittoria elettorale dei partiti islamici si è rivelata un’illusione o un inganno. Puntuale è scattato il colpo di stato «riparatore» con l’appoggio degli alleati. Una volta preclusa la via della politica, anche nella forma classicheggiante delle elezioni, quali saranno le misure da adottare? La guerra l’abbiamo vista e la vediamo. Altre soluzioni?

19luglio 2015 di Gian Paolo Calchi Novati

Siamo abituati agli strafalcioni dei nostri uomini politici sui fatti del mondo. È vero anche per la politica interna ma qui si parla di politica estera. E questa volta non si può tacere.

Rrenzienzi e Gentiloni hanno fanno bene, benissimo, a piangere le vittime dell’attentato al Cairo e a condannare l’atto di terrorismo. Nessuno li autorizza però a offendere la verità st­orica, la logica e la credibilità dell’Italia.

Renzi e Gentiloni, così, hanno fatto male, malissimo, a contrapporre alla strategia omicida dell’Isis o di chiunque abbia messo la bomba la figura esemplare di Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha più di una responsabilità in ciò che sta avvenendo in Egitto e l’appoggio che gli assicura il governo italiano con parole osannanti finisce per coprire e persino condividere quelle responsabilità. Il colpo di stato del luglio 2013, i massacri in piazza e le sentenze di morte sono passati in giudicato, condonati, messi fra parentesi? Renzi non si è spinto oltre una pia esortazione a favore di un po’ più di libertà di stampa.

Abdel Fattah al-Sisi ha lo stesso, identico profilo dei personaggi che nel 2011 furono i bersagli delle Primavere arabe.

Anche Ben Ali e Mubarak, se non Gheddafi, che si accontentava del resto di essere la Guida della rivoluzione libica e non un capo di stato, passavano per un voto alle scadenze di legge. Ed è probabile che le elezioni che confermavano al potere Ben Ali e Mubarak fossero più libere di quella che un anno fa ha incoronato al-Sisi.

Tutti i dirigenti occidentali ex-post (non si sa mai) condannarono i leader abbattuti dalle dimostrazioni come «dittatori» (un termine che, vista l’origine semantica, andrebbe usato in effetti con più precauzione). Dunque, anche al-Sisi è un dittatore. Il governo italiano deve dire al parlamento e all’opinione pubblica perché ha scelto come suo (nostro) principale alleato nel Medio Oriente un dittatore.

Tutti immaginano ovviamente quale sarebbe la risposta. «Oggi l’Egitto è un paese chiave dal punto di vista della sfida del fondamentalismo»: così il ministro Gentiloni su Repubblica domenica.

E qui i nostri governanti dimenticano i mea culpa pronunciati con compunzione nel 2011 in tutte le capitali occidentali, anche a Washington, per aver appoggiato per tanto tempo degli autocrati che si proponevano come baluardo contro l’islamismo.

Si dovrebbe parlare di rivolta egitto«vergogna» se non ci fosse una vergogna senza colpa (leggere Kafka, Levinas e Agamben). Rimanendo nel campo della politica, non è tanto difficile capire che se un governo in difficoltà giustifica i suoi crimini la necessità di stornare un pericolo (per sé e soprattutto per gli altri: la famosa «sicurezza»), farà di tutto perché quel pericolo al massimo venga contenuto ma mai eliminato. L’Arabia Saudita insegna. Chi continuerebbe altrimenti a prestare aiuti, onori e armamenti?

 al SisiAd abundantiam, nel 2013 Abdel Fattah al-Sisi non era un ufficiale qualunque. Non ass­steva impotente dalle retrovie alle eventuali malversazioni di Morsi e dei Fratelli.

Era un membro autorevolissimo del governo e capo delle forze armate. In un certo senso, se c’erano abusi o misfatti, ne era corresponsabile.

 Comunque, aveva l’obbligo morale e gercairoarchico di espri­mere il suo dissenso dimettendosi così da aprire una crisi che investisse direttamente il presidente. Anche il ministro dell’Interno, che si rivelerà un super-falco nel momento della repressione, lo avrebbe sicuramente imitato. Il governo si sarebbe trovato davanti alla necessità di una scelta. Magari avrebbe sbagliato ancora. Ma sarebbe stata almeno l’ultima chance.

Sisi ha trovato più comodo violare la Costituzione appena varata, calpestare quel po’ di democrazia che era stata ripristinata, dichiarare guerra alla Fratellanza musulmana uscita vittoriosa dalle urne un anno prima e autoproclamarsi rais.

Una volta si sarebbe detto «con la benedizione» dell’America. Nell’immediato solo Israele e Arabia Saudita furono veramente d’accordo. È fondato il dubbio che sul momento Obama non abbia affatto gradito. Il suo ministro della Difesa, poi rimosso, parlò al telefono per un’ora (la conversazione fu pubblicata sul New York Times) al fine di convincere le autorità egiziane che avevano preso il potere a non usare la forza contro i dimostranti islamici. Ne seguì, invece, all’ombra delle moschee del Cairo, una Tian An Men moltiplicata per dieci o per venti tenendo conto delle diverse dimensioni delle popolazioni di Cina ed Egitto.

Siccome Renzi, che come direbbe Antonio è un uomo d’onore, ha ripetuto anche in questa triste occasione di essere impegnato a lottare contro il terrorismo, ha il dovere di spiegare alla nazione come l’Italia, per quel poco o tanto che le compete, ritiene di venire a capo di un problema che – anche senza sviscerarlo qui un’altra volta – ha tanti aspetti che vanno al di là di al-Qaida, dello stato islamico e più in generale del fanatismo jihadista.

L’islamismo è un fattore che nasce e prospera per cause profonde. Prima in Algeria e poi in Egitto la vittoria elettorale dei partiti islamici si è rivelata un’illusione o un inganno. Puntuale è scattato il colpo di stato «riparatore» con l’appoggio degli alleati. Una volta preclusa la via della politica, anche nella forma classicheggiante delle elezioni, quali saranno le misure da adottare? La guerra l’abbiamo vista e la vediamo. Altre soluzioni?

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