“Pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra.” (Fabrizio De André)
11 Luglio 2015, di Michele Faliani
Credo che dopo Robert Fripp sia il chitarrista che si trova più di frequente nei miei cd: dai capolavori di Tom Waits ai dischi di Caetano Veloso, fino alle apparizioni negli album di Vinicio Capossela e Mimmo Locasciulli. Lui è Marc Ribot, che si presenta all’Anfiteatro del Museo Pecci di Prato insieme al batterista Ches Smith e al polistrumentista Shahzad Ismaily, nella sua nuova incarnazione Ceramic Dog. Ribot si piazza sulla destra del palco, semicoperto da un’asta di microfono che userà soltanto in tre canzoni, seduto su sedia quasi come a non voler perdere il contatto con la sua Fender Jaguar, sulla quale sta piegato per non perderla di vista neanche un secondo. Alza lo sguardo solo per qualche cenno al fonico e qualche timido “Thank you” fra una canzone e l’altra. Scivola via un’ora e mezzo di qualcosa di inclassificabile, che fluttua fra il jazz, il punk, l’avanguardia, il progressive e l’elettronica. Due bis, con il pubblico del Pecci che non vorrebbe che la magia di Ribot e del suo cane di ceramica finisse.
Un pezzo di storia della musica del 900 è passato davanti ai nostri occhi.