Ruggero Morelli, conclude le interviste ad alcuni giovani di Uninfonews con: Legge  sui partiti e Terzo Settore

13gennaio 2018 da Ruggero Morelli, Livorno

“Con le due ampie note sulla legge dei partiti ex art.49  della Costituzione di Lamberto Frontera e sugli Enti del terzo settore di Francesco Rau, concludo la prima occasione di interviste con giovani laureati dell’associazione ”Uninfonews”  che ci parlano del futuro. A breve  avvierò una  seconda iniziativa che si incentrerà su proposte per Livorno e costa toscana.”

Su: Legge sui partiti, risponde Lamberto Frontiera

In Italia l’astensionismo elettorale cresce da tempo ed ha raggiunto un livello insospettabilmente alto, rapportato all’alto tasso di partecipazione politica che ha contraddistinto la storia della politica repubblicana.

E ‘un fenomeno diffuso, seppur in modo diversificato, in tutto il territorio nazionale ed attraversa aree politiche e sociali. Sulle sue cause non mancano le analisi, che rimandano prevalentemente ad una accresciuta sfiducia nelle forze politiche in campo, nella loro coerenza ed affidabilità; sfiducia rivolta anche, più in generale, alle istituzioni e alla vita pubblica, a causa dell’inefficienza dei servizi, della diffusa corruzione e del clientelismo. La disillusione aumenta inoltre verso la possibilità della politica di governare efficacemente l’economia, fortemente condizionata dalle dinamiche della globalizzazione. I giovani, oggi, a causa della trascuratezza di politiche efficaci in loro favore, percepiscono maggiormente questi sentimenti di perdita di credibilità.

Ma l’astensionismo, come fenomeno sociale e politico, non è solo italiano e sarebbe sbagliato analizzarlo al di fuori di un approccio comparativo, rivolto almeno a tutto l’Occidente.

Ovunque si registrano analoghe tendenze: dall’altra sponda dell’Atlantico, in cui è strutturale e giudicato stabilizzante per la democrazia stessa (non sopraffatta da un eccesso di domande), al resto d’Europa, in cui dilaga ed aumenta ovunque. Inoltre, negli ultimi decenni, vecchi e nuovi media hanno acquisito una maggiore indipendenza ed una efficace e meritoria capacità di denuncia dei fenomeni di corruzione che inquinano la politica, mobilitando fortemente l’opinione pubblica; ma a questa utile pressione si è affiancata una crescente tendenza allo scandalismo di tipo qualunquista, con l’effetto di accrescere e consolidare una diffusa concezione antipolitica in vasti strati della società. 

Contribuisce inoltre all’astensionismo elettorale, non va trascurato, anche un atteggiamento di “scelta razionale”.

Lungi dal rappresentare sempre e soltanto un mero disinteresse verso la cosa pubblica, questo atteggiamento racconta di una decisione sempre più consapevole, per quanto magari sofferta e amara, di milioni di elettori: quella di “scegliere di non scegliere”. Venuti meno gli obblighi di votare “turandosi il naso”, come disse Indro Montanelli, o di supportare incessantemente la propria ideologia ed il Partito, oggi molti elettori, più disillusi ed informati, non adottano più con la stessa portata opzioni irrazionali, di appartenenza o identitaria, talvolta prossime al fanatismo. E di fronte ad un ventaglio di scelte insoddisfacenti, preferiscono non partecipare allo scontro elettorale. Da non deprecare e demonizzare, quindi, l’astensione può e deve essere un’arma di protesta contro una rappresentanza mediocre, e non un fenomeno da reprimere. Riguardo al dibattito sulla esigenza di una legge sui partiti politici, in attuazione dell’art 49 della Costituzione, per quanto indubbiamente necessaria ed utile per la regolare aspetti quali il finanziamento pubblico, la democrazia interna e una maggiore trasparenza, difficilmente essa potrà influenzare le tendenze che alimentano l’astensionismo elettorale. A prova di ciò, sempre in ottica comparativa, basta osservare che anche dove una legge sui partiti esiste e funziona, come in Germania, l’astensione cresce e la politica dei partiti risulta essere comunque in difficoltà.

Su Terzo Settore, risponde Francesco Rau

L’indebolimento del Sistema Welfare, che ormai procede da decenni, ha posto un grande interrogativo sulle effettive garanzie di tutela dello Stato sociale, aprendo una serie di dibattiti relativi a tutti quei settori sensibili dove lo Stato interveniva per proteggere le categorie svantaggiate.

Se per buona parte del secondo dopoguerra abbiamo pompato capitali nel Primo Settore (quello pubblico), e ora i vuoti di efficienza hanno ingigantito il debito provocando delle – più o meno necessarie – politiche di austerità, pare scontato che il Secondo Settore (quello delle imprese private) non debba, non possa e non voglia accollarsi tutti quei compiti di difesa sociale per gli strati deboli della popolazione. Nasce così, da questa esigenza fondamentale, la necessità di costituire – o meglio, di formalizzare e riordinare – istituti e imprese no-profit di interesse generale o di utilità sociale. Appartengono così al Terzo Settore (formalmente privato, ma pubblico negli interessi) tutti gli enti filantropici, le organizzazioni di volontariato e di promozione sociale, le cooperative sociali e le società di mutuo soccorso che lavorano per riempire le lacune lasciate dal Welfare statele.

In realtà, parlare di ETS (Enti del Terzo Settore) come “tappabuchi” dello Stato è ingiusto, e la denominazione stessa di “Terzo” settore (ovvero cronologicamente successiva allo Stato e ai privati) ignora il fatto che le unioni di liberi cittadini che si propongono di perseguire interessi generali o di soccorrere soggetti in difficoltà hanno una storia tanto vecchia quanto quella dell’umanità stessa.

Senza scavare troppo affondo nei millenni, già nel 1800 nascevano banchi di mutuo soccorso autogestiti da operai vicini a certe frange ideologiche come le Leghe rosse, e ancora prima erano le organizzazioni religiose come le Leghe bianche a soccorrere i poveri e i bisognosi. Nel nostro Paese, il primo a mettere mano al grande mondo dell’intervento sociale volontaristico fu Crispi, che, con una legge del 1890, istituì le IPAB (Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficenza) come enti pubblici dotati di personalità giuridica, contribuendo ad una parziale e modesta laicizzazione e istituzionalizzazione del volontriato sociale. Le IPAB potrebbero essere considerate le antenate delle odierne ETS.

  • Poi, dopo un lungo silenzio durato più di un secolo, a fine millennio si iniziarono a percepire le mancanze delle garanzie sociali del Welfare, e nel novembre del 2000 arrivò la 328: la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.
  • L’articolo 5 della 328/2000 è quello dedicato alle OTS, e al comma 1 afferma che “per favorire l’attuazione del principio di sussidiarietà, gli Enti Locali, le Regioni e lo Stato promuovono azioni per il sostegno e la qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso politiche formative ed interventi per l’accesso agevolato al credito ed ai fondi dell’Unione europea”.
  • La legge 328/2000 fu ottima sul piano dei valori e delle finalità, ma fu accusata di essere vaga per quanto riguarda il metodo dell’intervento sociale. Inoltre, l’anno successivo fu emanata la celebre legge sul decentramento amministrativo, che scaricò gran parte dell’organizzazione in mano a Regioni e Comuni, contribuendo così a quel processo di frazionamento che molti lavatori del servizio sociale lamentano.
  • Quest’anno, dopo il decreto legislativo 111/2017 sul cinque per mille e quello 112/2017 sull’impresa sociale, il Parlamento ha emanato il 3 agosto 2017 un Codice unico (Dlgs 117/2017) sulle ETS. La riforma prevede l’iscrizione non obbligatoria ma consigliata al RUNTS (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore), che permette varie agevolazioni, come il passaggio delle detrazioni fiscali dal 26% al 30% sulle donazioni di privati verso le ETS.

Il Codice unico sul riordino del Terzo Settore, inoltre, non prevede più la finalità d’aiuto a “soggetti svantaggiati” tra i requisiti per definire un’ETS. Ma nella pratica, quanto davvero può fare il Terzo settore?

  • Secondo un’indagine ISTAT del 2011, le associazioni no profit (culturali, sportive e ricreative, cooperative sociali, fondazioni, enti ecclesiastici, organizzazioni di volontariato, ONG, sindacati, istituzioni di studio, di ricerca, di formazione, mutualistiche e sanitarie) nate nel decennio precedente sono state oltre 66mila, con una crescita degli impiegati del 39,4% e una del 43,5% sui volontari. Un numero enorme, ma se osserviamo attentamente scopriamo che sotto la denominazione di “Organizzazione che opera nel Terzo Settore” finiscono pure certi enti che poco hanno a che vedere con l’effettiva utilità sociale di soccorso al soggetto debole. Fu fatto notare da alcuni esperti [1] che l’indagine ISTAT considerò alla fine del decennio parametri ignorati all’inizio delle rivelazioni, finendo per gonfiarne le cifre. Gli stessi autori evidenziarono come molte  chiusero i battenti lasciando il bilancio sì in pari, ma comunque sotto a quanto possa sembrare da certi dati.
  • Secondo il rapporto Eurispes del gennaio 2016, l’indice di fiducia degli italiani verso il mondo del volontariato è al 73,8%, il più alto rispetto agli altri oggetti presi in considerazione, come i Carabinieri (69,9%), i partiti (22,9%), il Presidente della Repubblica (52%) o la Chiesa Cattolica (52,5%). La stessa indagine rivela che il 36% degli italiani dichiara di aver partecipato nell’ultimo anno ad attività di volontariato.

Gli italiani credono quindi più al mondo del volontariato che ai sindacati o alla Magistratura, ma questa generale fiducia ottimista non riesce a levare il dubbio ad alcuni esperti, né tantomeno a coprire completamente le mancanze del Primo Settore.

Per alcuni [Riccardo Guidi, 2016], la crescita del volontariato sociale costituisce la ferita del neo-filantropismo che, insieme a quella del neo-managerialismo (ovvero l’irrompere di logiche aziendali nel servizio sociale), mette sotto assedio il Primo settore, de-professionalizzando l’aiuto sociale. Secondo altri [Fazzi, 2012], “il non profit sarebbe funzionale all’importazione nelle professioni sociali di orientamenti manageriali produttivi di demotivazione e insoddisfazione”. Pare quindi che nell’opinione di alcuni esperti, la crescita deregolamentata del Terzo settore rischierebbe di generare confusione e de-professionalizzazione, accogliendo anche le logiche manageriali privatistiche che stanno inglobando anche il Primo Settore, riducendo il carattere universalistico dello Stato sociale. Secondo questo schema, primo e terzo settore si muoverebbero sulla strada battuta dal Secondo, che condurrebbe verso un modello di Welfare aziendale, erogato dai privati (come i sussidi familiari o gli incentivi che certe imprese erogano ai dipendenti per fidelizzare).

D’altra parte, non possiamo comunque ignorare la grande forza che in Italia parrebbe avere il Terzo settore.

Il mondo del volontariato possiede un capitale umano e sociale enorme; potrebbe diventare una risorsa fondamentale per l’Italia, e forse già lo è. Si tratta di un universo molto eterogeneo, che va dalle ideologie politiche radicali al mondo cattolico, dall’umanesimo alla filantropia; è caratterizzato da istanze diverse, politiche, morali, civiche o religiose. Il Terzo Settore potrebbe quindi (continuare ad) attingere al grande cosmo dell’impegno volontario, ma deve farlo con scienza e coscienza, con la progettualità capace di non far disperdersi in una realtà molecolare e divisa in piccoli nuclei singoli. Il Terzo Settore dovrà diventare una realtà organica e regolamentata, diretta dal settore pubblico, ma capace di tutelare le singole istanze delle associazioni e delle ETS locali, il tutto stando attento a non diventare un apparato troppo burocratico e amministrativo, proprio per non uccidere quello spirito spontaneo e  l’azione di ogni volontario. 

Le due interviste precedenti:

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