C’è una religione, forse alla base e all’origine di tutte le religioni, la cui comprensione renderebbe impossibili i conflitti e le guerre? Forse si e potrebbe non essere soltanto una religione. Entriamo nel mondo dell’Advaita Vedanta induista e vediamo se riusciamo nell’impresa di dare solo una pallida idea di che cosa sia, e magari di accendere anche un po’ di curiosità.
03marzo 2015 – di Massimo Fanucchi.
Advaita, in sanscrito, significa “non due”, o non dualità. Vedanta, significa la fine dei Veda: antichissimi testi sacri indiani. L’advaita è il vedanta monistico, cioè non dualistico, paradossale e troppo elevato per essere la religione delle masse, perfino in India, dove è nato circa tremila anni fa e non è mai riuscito a penetrare nel popolo.
Secondo l’advaita vedanta (da ora in poi A.V.) noi non siamo né nati né destinati a morire. Non avemmo nascita, né avremmo una rinascita, né vita né reincarnazione, né alcun’altra cosa. Siamo infiniti, eternamente presenti, oltre ogni causazione e eternamente liberi. La nostra sensazione di essere entità individuali separate dal tutto è una pura allucinazione.
L’A.V. sottolinea incessantemente che questi sono comunque solo concetti, tentativi fuorvianti e auto-contraddittori per definire ciò che non può essere raggiungibile con le parole.
Mauro Bergonzi, docente di Religione e Filosofie dell’India, nonché psicologo analitico, ci dice che “la concezione non dualista non ha verità da svelare né insegnamenti da impartire, perché ognuno di noi, esattamente così com’è adesso, senza dover “cambiare”, “migliorare”, “purificare” o “trasformare” alcunché, in qualsiasi momento della vita può accorgersi di qualcosa che – per quanto non notato – c’è sempre, vale a dire l’evidente certezza che esistiamo e sappiamo di esistere, la Presenza consapevole che costituisce il nostro vero Sè”. Ma come?, ci vien da dire, ci hanno sempre insegnato che per andare in paradiso, o quanto meno in purgatorio, dobbiamo migliorarci, smettere di peccare, diventare buoni e altruisti….
e l’ A.V. ci dice: fermati, sei perfetto! Così come sei. Ora. Sei a casa. Ci sei sempre stato. Non hai bisogno di purificarti, di meritarlo, di diventare degno: è il tuo diritto di nascita e nessuno te lo può togliere. Sei la presenza consapevole che è sempre qui e sempre adesso. Se lo sapete siete la Presenza. Se non lo sapete siete comunque la presenza.
Non c’è nulla di più democratico del risveglio a questa presenza, perché non esclude nessuno. Per l’A.V., nel tentativo di migliorarci, neghiamo le tendenze che consideriamo indesiderabili e le rifiutiamo, ma queste tendenze rifiutate non scompaiono; rimangono e si accumulano sotto la superficie. Questa repressione è la causa di ansia e di altri disturbi mentali. Al contrario, la comprensione che gli aspetti indesiderati dell’io sono parte integrante del presunto individuo è il primo passo verso la liberazione attraverso la resa (surrender) a ciò che è. E questo è anche un invito a smettere di cercare la sicurezza, che è un mito della mente.
Nell’A.V. questa presenza consapevole, che viene prima di ogni esperienza specifica, apre l’orizzonte indiviso da cui emerge l’apparenza dualistica di un “io” individuale (fondamentalmente illusorio) contrapposto a un “mondo esterno” (altrettanto illusorio). Ma se noi non esistiamo (in senso assoluto e non relativo) come entità individuali, come sorge la coscienza di esistere come entità individuali? La pura soggettività (il noumeno), secondo l’A.V., non è consapevole della propria esistenza. La consapevolezza di esistere si produce solo con il sorgere della coscienza, ossia “l’io sono”.
Ciò significa che la coscienza a riposo (la pura soggettività) non è consapevole della propria esistenza finché non avviene al suo interno un improvviso movimento naturale. In questo movimento la coscienza diventa consapevole di se stessa come “io sono”. Detto in altri termini, tutto ciò che esiste è la coscienza universale che diventa me e te, quando si identifica con un corpo considerato separato dal resto del mondo. Tra la coscienza e l’universo non c’è rapporto causale: per l’A.V. esiste soltanto la coscienza, immanente nell’universo che appare. In altre parole, la coscienza e l’universo non sono due cose tra cui possono sussistere relazioni: sono “non due”. Non due perché dire semplicemente che sono “Uno” potrebbe chiamare in causa Dio. E invece – dal punto di vista dell’A.V. – non esiste Dio e non esistiamo (come realtà separate) neanche noi: esiste solo la coscienza.
Praticamente, nulla è mai stato creato come cosa separata dal resto, anche se così appare, e tutto è nella mente, che è coscienza in movimento. Se non lo avete capito non è un problema, perché non c’è niente da capire.
A questo punto i pazienti lettori materialisti e fisicalisti, che sono già sobbalzati sulla sedia leggendo che l’A.V. sta mettendo in discussione il mondo come realtà oggettiva, li rinviamo a ripassare le teorie della fisica quantistica, che ha rovesciato il senso comune e le leggi naturali comunemente accettate, rendendole completamente obsolete. Nelle nuove frontiere della fisica subatomica, infatti, è scomparsa la differenza tra onda e particella, tanto è vero che si parla di wavicle, onda-particella: un paradosso puro per la ragione, come il concetto che l’individuo non ha esistenza reale, autonoma.
Ma c’è di più: Einstein, con la sua celeberrima equazione, ha abbattuto la separazione tra massa ed energia, mentre l’esperimento di Alain Aspect del 1982 ha dimostrato empiricamente (principio di non località delle particelle, o entanglement) che nella struttura più intima dell’universo tutto è legato al di là dello spazio e del tempo. Senza parlare del superamento della separazione tra l’osservatore e l’oggetto osservato, al punto che oggi l’osservatore, per la meccanica quantistica, è diventato un partecipante attivo dello spettacolo che i suoi sensi gli trasmettono. Ciò significa che di fatto non esiste né un osservatore né un oggetto osservato, ma semplicemente e più precisamente la funzione dell’osservare. Che è, appunto, un atto della coscienza. La realtà, come spiegò il noto fisico David Bohm in una delle sue più famose metafore, sarebbe una specie di fantasma, o meglio, un gigantesco ologramma che cambia in continuazione.
L’A.V. ammette l’illusorietà dell’universo manifesto, ivi compreso l’individuo umano, e questo è il suo aspetto trascendente, ma nello stesso tempo non vieta all’individuo illusorio di continuare il gioco. Secondo il Vangelo di Tommaso, alcuni discepoli chiesero a Gesù: “Se saremo come quei bimbi, entreremo nel Regno?”. Gesù rispose loro: “Quando farete di due cose un’unità e farete l’interno uguale all’esterno e l’esterno uguale all’interno e il superiore all’inferiore, quando ridurrete il maschio e la femmina ad un unico essere così che il maschio non sia solo maschio e la femmina non sia solo femmina… allora troverete l’entrata del Regno”.
Questo ineffabile “Regno”, secondo l’A.V., è lo stato di pura coscienza, nel quale si perde l’individualità ma si guadagna la totalità universale.
Naturalmente, anche in quello stato non ordinario di coscienza, a chi ce lo chiedesse, risponderemmo sempre con il nostro nome, ma come “esseri nel mondo ma non del mondo”, per usare un celebre detto dei sufi islamici. E la morte? Riguarda più che altro le conoscenze immagazzinate dall’individuo, perché nell’A.V. sono appunto queste che formano la sua individualità. Il noto maestro Nisargadatta Maharaj (chi vuole approfondire l’A.V. deve prima leggere il suo best-seller mondiale: “Io sono Quello” – Ubaldini Editore), a chi lo andava a trovare nella sua modestissima casa posta in una sporca e secondaria via di Bombay, domandava spesso: “Sei sicuro di esser nato? Certo, te lo hanno detto i tuoi genitori e confermato altri parenti, e così hai finito per accettarlo, ma TU, ne sei proprio sicuro? Ricordi un momento in cui non esistevi e poi all’improvviso sei apparso? Poi, fulminando con lo sguardo lo sbigottito visitatore, sentenziava: “Nessuno nasce, nessuno muore! Solo il corpo è nato e un giorno se ne dovrà andare, insieme alla mente, ma TU non sei il corpo, e nemmeno la mente”.
Giunto a questo punto, l’affezionato amico lettore Sergio Barsotti, che come noi ha “frequentato l’università” di Shangay, sarà tentato di dare un calcio a un sasso (come pare fece Johnson per confutare il filosofo Berkeley che negava la sostanzialità del mondo), o magari di tirarcelo direttamente in testa, come inconfutabile prova empirica immediata. Nei due casi, il dolore al suo piede, e quello nella mia testa, saranno reali, come il dolore e la sofferenza psicologica umana.
Un sasso illusorio tirato contro un individuo illusorio produrrà, nella coscienza individuale, dolore vero. Siamo in prigione nello spazio, nel tempo, nel corpo, nella mente e nelle emozioni. Ma la nostra natura essenziale, secondo l’A.V., non è nello spazio, nel tempo, nel corpo e nemmeno nella mente (se non come fondamento). E’ sempre presente, ed è l’osservazione allo stato puro dei movimenti della nostra mente. Concludiamo rispondendo allo stesso Sergio, che ci dice sempre di essere ateo e di non credere in nulla, che se indaga quel nulla – sempre secondo l’A.V. – potrebbe scoprire che quella dimensione è alla base di tutte le cose.
Quel nulla che è pieno di energia potenziale, da cui è nato il Big Bang e l’universo “illusorio”, potrebbe essere la Coscienza Pura, che non ha niente a che vedere con tutti i concetti umani che sono limitati dal pensiero razionale che si basa necessariamente sulla differenziazione e sulla divisione tra soggetto e oggetto.
Sulla conclusione invece Sergio sarà d’accordo con noi: il pensiero advaita non può produrre guerre e conflitti né indifferenza nei confronti della sofferenza umana, che riguarda tutti noi come UNO, o meglio, NON DUE.