Andrea Puccio: “Cuba: 60 anni di rivoluzione”

8gennaio 2019 da Andrea Puccio corrispondente di Pisorno.it da Cuba

1’ gennaio 1959 – 1’ gennaio 2019: sono passati sessanta anni dal trionfo della rivoluzione cubana guidata da Fidel Castro Ruz ed il popolo cubano anche quest’anno, a dispetto di coloro che in tutto questo periodo hanno cercato di distruggerla, ne festeggiano il 60’ anniversario.

Le sfide attuali della revolucion

Parlare della rivoluzione dopo sessanta anni dal suo trionfo non è opera agevole. Sarebbe fin troppo semplice fare un paragone tra la Cuba pre rivoluzionaria di Batista con la Cuba di oggi dove la sanità e l’istruzione sono gratuite per tutti, dove non esiste analfabetismo dal 1961, ma credo che la rivoluzione vada vista sotto un altro punto di vista. 

Il merito della rivoluzione cubana è senza dubbio quello di aver dimostrato al mondo, in piena guerra fredda, che esisteva un altro modo di gestire lo Stato, quello di dare la priorità al popolo e non alla borghesia. Nel 1959, appunto, in piena guerra fredda, il capitalismo in lotta con il comunismo sovietico non poteva appoggiare una rivoluzione di popolo come quella cubana. Oggi che il comunismo è stato sconfitto dal capitalismo, la realtà di Cuba rappresenta ancora un pericolo perché, adesso come allora, questa piccola isola dei Caraibi è l’esempio che se si vogliono cambiare le politiche è possibile, che esiste un’altra via al dilagante neoliberismo. 

In sessanta anni di tentativi per distruggerla ne sono stati fatti molti, ma la resistenza del popolo cubano era pari al suo desiderio di indipendenza e di dignità nazionale. Restare attaccati ai principi della rivoluzione non era, e non è, oggi, un semplice fatto ideologico ma una consapevolezza che questi principi hanno apportato alla popolazione dei risultati tangibili, nonostante il blocco economico, finanziario e commerciale che l’isola soffre dal 1962 per aver scelto di non sottostare alle politiche che gli Stati Uniti le avevano riservato. Restare fedeli alla rivoluzione è il peccato che Cuba ha commesso nel 1959 e che negli anni successivi non ha mai voluto abiurare. Tale peccato originale l’isola se lo porta sulle spalle da sessanta anni e per questo continua ad essere punita con il blocco unilaterale statunitense ma, come dicono i cubani, abbiamo resistito per tutti questi anni, potremmo resistere per altrettanto tempo, ma non retrocederemo di un passo dalle nostre idee. 

Se nei primi anni dopo il trionfo della rivoluzione gli attacchi per abbatterla erano di carattere militare e terroristico, adesso, sia per la difficoltà di far accettare all’opinione pubblica mondiale un attacco militare esterno all’isola, sia per i costi che ne deriverebbero, la strategia è quella di farla implodere dell’interno. Come mi diceva un amico cubano “negli anni ’60, ’70 ed ’80 il nemico lo avevamo a novanta miglia a nord, adesso lo abbiamo in casa”. La strategia adottata dal potente vicino nordamericano è quella di creare un costante malcontento generalizzato nella popolazione che porti ad una richiesta di generico cambiamento. Questa nuova guerra si combatte con i mezzi di comunicazione a colpi di notizie false o mezze verità. Soprattutto alle nuove generazioni, più sensibili ed abituate ai nuovi mezzi di comunicazione, primi tra tutti internet ed i social network, è rivolta la nuova strategia della guerra tecnologica. 

Il filo conduttore di tutte queste notizie è quello di far credere a quella parte della popolazione, più attenta ai beni  di consumo tipici del capitalismo che non ai benefici sociali delle politiche governative, che lo Stato non sia in grado di dare ai propri cittadini tutte quelle merci che invece si vedono nelle fotografie o nei video pubblicati in internet. Viene attribuita la responsabilità allo Stato di non voler volontariamente mettere in commercio tutta quella paccottiglia di beni che affollano i nostri scaffali, di voler privare la popolazione, senza spiegare il perché, di qualcosa, senza però ricordare che lo Stato non può approvvigionarsi di tutte le merci necessarie a causa del blocco economico imposto dagli Stati Uniti.

La nuova frontiera che si trova di fronte lo Stato cubano è quella di combattere la guerra informativa. Dovrà, pena la perdita di tutto ciò che fino ad adesso la rivoluzione ha apportato alla popolazione, creare ampia coscienza nelle nuove generazioni che la rivoluzione, nonostante i suoi sessanta anni, non è vecchia e che ancora può servire per lo sviluppo del paese e dei suoi cittadini. Questa è la nuova difficile battaglia che la rivoluzione dovrà combattere nei prossimi anni, come diceva Fidel “la nostra dovrà essere una battaglia di idee”. Non bisogna però indugiare coi tempi perché altrimenti questo cancro mangerà l’attuale sistema cubano poco a poco dal suo interno, e come avviene nella cura dei tumori, non si può lasciare che si sviluppino le metastasi.

La ricostruzione storica degli eventi

L’isola era, alla fine del 1958, praticamente divisa in due: la ferrovia era interrotta in vari punti, le strade controllate dai guerriglieri. In oriente era guerra totale e le truppe governative potevano ricevere i rifornimenti solo per via marittima o aerea.

Nel centro dell’isola le colonne di Camillo Cienfuegos e di Ernesto Che Guevara avevano sferrato anche loro l’assalto finale al regime. Il 18 dicembre 1958, dopo due giorni di combattimenti, cade la città di Fomento, il 21 caddero Cabaiguan e Guayos, lo stesso giorno inizia l’assedio a Yaguajai che resisterà per dieci giorni. Le città erano quasi completamente isolate e le caserme erano lasciate al loro destino dato che non ricevevano più rifornimenti. La colonna del Che due giorni dopo, in rapida successione, occupa le città di Placeta, Remedios e Caibarien che cadrà il 26. Santa Clara del Rio, il capoluogo della provincia di Las Villas, importante città di circa 150 mila abitanti posizionata nel centro dell’isola e fondamentale nodo ferroviario, era sempre più vicina. L’attacco fu sferrato alle 5 di mattina del 29 dicembre 1958 e cadde tre giorni dopo. In questo scontro perse la vita Roberto Rodriguez, uno dei più valorosi guerriglieri della lotta rivoluzionaria.

Il Generale Cantillo a capo della guarnigione di Santiago, il 28 dicembre 1958 incontra segretamente Fidel per trattare la resa. Il Generale Cantillo avrebbe abbandonato Santiago in aereo per raggiungere L’Avana per incontrare gli altri capi dell’esercito e convincerli ad arrendersi e consegnare le armi ai ribelli. Ma Cantillo fa il doppio gioco: si accorda con gli Stati Uniti che volevano sbarazzarsi di Batista ma non volevano che vincesse la guerra l’esercito castrista. In una concitata riunione con l’ambasciatore americano Smith, i Generali accettarono di formare una giunta militare, subito riconosciuta dagli Stati Uniti e dalle opposizioni di Miami, per ristabilire la democrazia a Cuba. Il 1 gennaio 1959 alle 2 della notte, mentre i cubani festeggiavano il capodanno, Fulgencio Batista abbandona l’isola in fretta e furia in aereo con destinazione Santo Domingo. Ben presto si accorgono che Cantillo stava facendo il doppio gioco. Fidel Castro lancia dai microfoni di Radio Rebelde un appello alla popolazione perché insorga contro la giunta militare. Queste le parole pronunciate:

“Una giunta militare in complicità con il tiranno ha assunto il potere per garantire la sua fuga e quella dei principali assassini e per cercare di frenare la spinta rivoluzionaria per privarci della vittoria. L’esercito ribelle continuerà la sua irrefrenabile campagna e accetterà solo la resa incondizionata delle guarnigioni militari. Il popolo cubano e i lavoratori devono immediatamente prepararsi per il 2 gennaio per iniziare uno sciopero generale che appoggi le armi rivoluzionarie garantendo in tal modo la vittoria totale della rivoluzione. Sette anni di eroica lotta, migliaia di martiri che hanno versato il proprio sangue in ogni luogo di Cuba, non verranno messi al servizio di coloro che fino a ieri furono complici e responsabili della tirannia e dei suoi crimini perché continuino a comandare a Cuba. I lavoratori, seguendo le direttive del Movimiento 26 de Julio, devono, oggi stesso, occupare tutti i sindacati e organizzarsi nelle fabbriche e nei centri di lavoro per iniziare domani all’alba la paralizzazione completa dell’isola. Batista e Mujal sono fuggiti ma i loro complici sono rimasti a capo dei sindacati e dell’esercito. Colpo di stato per tradire il popolo, no. Equivarrebbe a prolungare la guerra. Finché Columbia non si sarà arresa la guerra non potrà terminare. Questa volta niente e nessuno potrà impedire il trionfo della rivoluzione. Lavoratori, questo è il momento in cui tocca a voi assicurare il trionfo della rivoluzione. Da oggi Sciopero generale rivoluzionario in tutti i territori liberati”.

Il 2 gennaio 1959 Cuba era paralizzata; gruppi di lavoratori armati avevano occupato i principali edifici pubblici, parte dell’esercito era passato nelle file dei ribelli. Da Santiago, Fidel ordina alle colonne di Camilo e del Che di dirigersi a L’Avana che fu occupata senza colpo ferire. Fidel raggiunse la capitale l’8 gennaio 1959 a capo della Carovana della Libertà dopo aver percorso da oriente ad occidente l’intera isola. Nella capitale, come nelle altre città toccate, la Carovana della Libertà veniva accolta da folle festanti.

La guerra di liberazione dalla tirannide era vinta ma adesso, come Fidel scriveva a Celia Sanchez, ne inizia una più lunga e difficile: quella contro l’imperialismo. Una guerra che Fidel, con a fianco il suo popolo, ha sempre combattuto in prima fila da protagonista.

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