Samba a destra in Brasile
13ott0bre 2018 di Marco Consolo
Più di 147 milioni di brasiliani sono stati chiamati alle urne lo scorso 7 ottobre per eleggere Presidente, Vicepresidente, i componenti di Senato e Camera, governatori degli Stati. Si trattava delle prime elezioni dopo il colpo di Stato parlamentare contro la Presidente legittima Dilma Roussef, golpe che ha insediato Michel Temer, il cui governo “de facto”, tra le altre misure, ha congelato la spesa pubblica per i prossimi 20 anni, privatizzato a man bassa e reintrodotto il lavoro schiavistico.
Sfiora l’elezione al primo turno di Jair Bolsonaro (46% con 49.275.360 di voti), rappresentante dell’estrema destra golpista brasiliana, ex-capitano dell’esercito, un nostalgico della dittatura militare (1964-1985) con una lunga lista di dihiarazioni machiste, xenofobe e razziste, omofobiche. Bolsonaro era stato vittima di uno strano attentato durante la campagna. Ma nonostante la campagna brutale di manipolazione dell’opinione pubblica che negli ultimi giorni lo ha appoggiato, Bolsonaro dovrà andare al ballottaggio del 28 ottobre con Fernando Haddad del Partito dei Lavoratori (PT) che ha ottenuto il 29,3% (31.341.840 voti) insieme alla sua candidata a Vice-Presidente, Manuela d’Ávila del Partito Comunista del Brasile (PCdoB).
- Più indietro Ciro Gomes, del PDT (Partito democratico Laburista), con il 12,5% e 13.344.000 voti), mentre il grande sconfitto è stato il candidato del Partito Socialdemocratico (dell’ex-Presidente Fernando Henrique Cardoso) che ottiene solo il 4,7 %.
- A seguire il candidato di Michel Temer, del Movimiento Democrático Brasilero, che ha ottenuto solo il 2% e Marina Silva, della Red Ecologista, con l’1%, e 1.000.000 di voti, mentre nelle elezioni del 2014 era andata vicina al ballottaggio.
Sono per ora rimaste frustrate le ambizioni di vittoria al primo turno dei settori golpisti che hanno destituito la legittima Presidente Dilma Roussef e messo in carcere Lula da Silva con un processo farsa, per impedirne la candidatura. Ma è una ben magra consolazione, dato che Bolsonaro ha sfiorato la vittoria con quasi la metà dei voti, in un’importante svolta a destra del gigante Brasile, spinta da una campagna contro il Partito dei Lavoratori (PT), dagli scandali di corruzione e con il decisivo sostegno delle chiese evangeliche. In altri termini, la destra evangelica, militare e dei latifondisti è a un passo dal governo.
Un Parlamento polarizzato
La Camera dei Deputati riflette il nuovo scenario politico diviso tra l’avversione al Partido de los Trabajadores (PT), e la paura dell’ultra destra, rappresentata da Bolsonaro. Il PT continua ad essere la forza principale alla Camera, con 56 deputati su un totale di 513, ma ne ha persi 12 rispetto al 2014. Dietro al PT si attesta il Partido Social Liberal (PSL), dove oggi milita Bolsonaro, deputato Federale da 27 anni con diversi partiti, arrivato al PSL solo nel 2018. Il PSL passa da 1 a 52 deputati. Uno di loro, eletto nello Stato di Sao Paulo, è il figlio Eduardo Bolsonaro, il deputato federale più votato nella storia del Brasile con 1.843.735 milioni di voti, sul cui profilo facebook si fa fotografare con un mitra in mano e circondato da fucili d’assalto. Stessa musica al Senato, dove il PSL passa da 0 a 4 senatori, uno dei quali è l’altro figlio, Flávio Bolsonaro, eletto con il 31,36 % a Rio de Janeiro. Qui il PT passa da 13 a 6 senatori, con la clamorosa bocciatura della ex Presidente Dilma Rousseff, favorita nei sondaggi a Minas Gerais, ma che ha ottenuto un insufficiente 15,35 %. Tra le esclusioni eccellenti nel PT, anche quelle di Eduardo Suplicy, senatore durante 24 anni e di Lindbergh Farias, capogruppo del PT rispettivamente negli Stati di Sao Paulo e Río de Janeiro.
Retrocede seccamente anche il Movimiento Democrático Brasileño (MDB), del Presidente golpista Michel Temer il cui candidato presidenziale ed ex-ministro delle Finanze, Henrique Meirelles, ottiene un misero 1,20 %. Alla Camera il MDB passa da 65 a 34 deputati e al Senato da 19 a 12 senatori anche se si mantiene como prima forza, nonostante la mancata elezione di figure chiave come Eunício Oliveira, attuale Presidente del Senato, sotto inchiesta per l’Operazione “Lava Jato”, il noto scandalo di corruzione. Il Partito Comunista del Brasile (PCdoB), alleato del PT, ha rieletto al primo turno il governatore dello Stato di Maranhão, Flavio Dino; ha eletto la sua Presidente, Luciana Santos, a vice governatore dello Stato di Pernambuco, insieme al governatore Paulo Câmara (PSB); ha eletto nove deputate-i federali (è in discussione il decimo); e ventuno deputate-i nei diversi Stati.
Alla polarizzazione tra PT e PSL, va aggiunta la grande frammentazione nel Parlamento con un totale di 30 partiti rappresentati nella Camera e 21 al Senato, il numero massimo registrato nella storia di quest’ultimo. L’atomizzazione del Congresso metterà a dura prova la capacità negoziale del prossimo presidente per realizzare diverse riforme, alcune delle quali hanno bisogno di una maggioranza dei 3/5.
Il cattivo risultato del Partito Socialdemocratico e del Movimiento Democrático Brasilero dimostra che il voto della destra si è concentrato su Bolsonaro, con l’obiettivo di sbarazzarsi del PT al primo turno. Il voto ha diviso il Paese-continente: il Nord-Est vota per il Partido de los Trabajadores e la sinistra, mentre il Sud ed il Sud-Est per la destra. Nel voto hanno pesato come macigni i territori di Minas Gerais, Río de Janeiro e Sao Paulo che hanno votato per la destra. Colpita da una sorta di sindrome di Stoccolma, più del 50% della popolazione del Brasile è Afroamericana e molti hanno votato un razzista. Il 51% sono donne e molte hanno votato un misogino. Del totale della popolazione, circa il 5 % sono omosessuali e hanno votato un omofobico.
Alcuni perché dei risultati
Ma perché un candidato misogino, xenofobo e pro-dittatura, un ammiratore di Pinochet che avalla la tortura e gli omicidi di quelli che non la pensano come lui, può arrivare ad essere il prossimo Presidente del Paese più grande della regione e tra i più importanti del mondo? Alcune delle risposte sono contenute in una interessante intervista a Valter Pomar, lucido dirigente del PT [i], realizzata prima delle elezioni:
“Noi siamo andati al governo nel 2003 e non abbiamo cercato di fare, non abbiamo fatto o non siamo riusciti a fare una riforma dello Stato, una riforma politica, una democratizzazione della comunicazione di massa. Non abbiamo provato a fare una riforma giudiziaria, una riforma dell’apparato di sicurezza e militare. Non siamo riusciti a cambiare la politica di finanziamento privato della cultura, il contenuto conservatore dei programmi educativi. Potrei continuare con gli esempi, ma il caso è già chiaro: l’istituzionalità che la classe dominante brasiliana ha sempre usato per governare è stata lasciata intatta da noi. E quando questa classe dirigente ha deciso di porre fine al nostro governo, ha usato l’istituzionalità con grande successo. Con una aggravante: alcuni di noi si sono arresi a questa istituzionalità, come se avesse il diritto di fare ciò che ha fatto”.
Fin qui, l’analisi interna di alcuni degli errori commessi dai governi a guida PT.
Ma dal golpe istituzionale contro Dilma, e dall’avvento del golpista Temer, hanno giocato anche altri fattori. Proviamo ad esaminarne alcuni. Il candidato Fernando Haddad è ben diverso da Lula: il primo è un distaccato accademico, il secondo una figura carismatica e popolare. Tra gli errori commessi dal PT, c’è stato quello di rimandare fino a un mese prima della scadenza elettorale la designazione di Haddad, quando è stato evidente che Lula non sarebbe stato scarcerato. Troppo poco per il trapasso di voti da Lula ad Haddad. La sinistra dal canto suo, sconta una distanza dalla sua base sociale tradizionale, accentuata da episodi di corruzione e da un rifiuto di massa della politica tradizionale.
La sinistra (moderata e radicale) al primo turno si è presentata divisa con almeno 3 candidati: i primi due (Fernando Haddad e Ciro Gomes ex-ministri di Lula) e il terzo, Guilherme Boulos, dirigente del Movimento per il diritto alla casa. Messo in carcere Lula, la sinistra non ha trovato candidati unitari ed alleanze amplie, meno a pochi giorni dalle elezioni. In una situazione estremamente polarizzata, il centro scompare e la destra tradizionale ha votato in blocco per fare scomparire dallo scenario politico il PT e la sinistra in generale, che non ha capito che Bolsonaro rischiava di vincere al primo turno. Si è trattato di un voto di protesta contro l’intero sistema politico, un voto “anti-politica”. La destra ha cavalcato “nuovismo e rottamazione”, ha presentato “facce nuove”, ed il voto ha mandato a casa molti candidati della tradizionale politica brasiliana. La voglia di “cambiamento” è stato il cavallo di battaglia di figure interne allo status quo. I poteri forti hanno avuto la capacità di imporre “un’alternativa d’ordine” anti-establishment, paradossalmente emersa dallo stesso establishment. Un caso già successo recentemente nelle elezioni colombiane, con Ivan Duque e parzialmente con Macri in Argentina.
La destra ha impostato la campagna sul tema ordine e sicurezza, in un Paese dove il crimine organizzato ha un peso enorme in molti settori e territori. La profondità della crisi istituzionale, politica ed economica ha generato un forte bisogno di ordine. Con il PT visto come parte del problema, l ‘”ordine” proveniva da “fuori” dal sistema ed associato alle Forze Armate, una istituzione che attraversa la crisi con un’immagine positiva. Per ristabilire l’ordine, Bolsonaro ha proposto la vendita libera di armi, e la “giustizia fai da te” alla Salvini. Per quanto riguarda il linguaggio, ha vinto il candidato che ha messo in discussione il sistema politico senza timore di sconfinare nel “politicamente scorretto”, adottando i valori conservatori di “riserva morale” attribuiti alle chiese evangeliche ed ai militari. In certa misura, vince chi “la spara più grossa” e il “copione Trump” ha funzionato anche in Brasile.
Dalla campagna elettorale la destra ha espunto i temi sociali, dando centralità, alla “questione morale” (leggi omofobia e misoginia) ed alle menzogne (fake-news) sparse (spammate) con generosità su tutte le reti sociali dagli “spin doctors” della comunicazione. E a proposito di menzogne, dagli Stati Uniti arriva un’interessante analisi della rivista Foreign Policy [ii], che titola “Il modello di Bolsonaro non è Berlusconi. E’ Goebbels”. E nell’occhiello recita “Bolsonaro non è solo un altro populista di destra. La sua campagna elettorale ha per modello il manuale nazista”.
La paura della crisi e della destabilizzazione della sfera del “normale” è stata imposta in modo tale che Bolsonaro è stato votato trasversalmente da tutti coloro che hanno “qualcosa da perdere”: settori medio alti, medi, poveri che hanno paura di perdere quel poco che hanno ottenuto grazie ai governi progressisti. Donne e uomini che hanno paura di perdere le loro strutture civili e/o religiose a causa dell’ “ideologia di genere”, la diversità sessuale, l’eguaglianza sociale e la criminalità. Gli abitanti degli Stati del Centro-Sud produttivo che temono di perdere il lavoro o il capitale. L’odio ed il disprezzo di classe (fortemente presente dall’alto verso il basso nella società brasiliana), la paura della perequazione sociale e l’estensione dei diritti come potente strumento elettorale: l’ultra-liberalismo economico non esita ad assumere il conservatorismo sociale come l’altra faccia complementare della sua proposta.
Il Big Data e Steve Bannon
Come accade sempre più spesso, i media concentrati e le “reti sociali” formano le soggettività e le volontà in misura eguale o maggiore rispetto all’azione politica tradizionale. La strategia di comunicazione di Bolsonaro, è stata chiara e semplice: ha disertato gli schermi televisivi (come il Movimento 5 stelle) dove aveva diritto a una manciata di secondi, per concentrarsi sulle reti sociali e sul contatto diretto con l’elettorato.
La campagna è stata apparentemente coordinata da consulenti internazionali. Si parla insistentemente di Steve Bannon, fondatore di Cambridge Analitica ed assessore della campagna elettorale di Donald Trump, esperto nell’uso del Big Data attraverso internet. Nella campagna elettorale, la destra ha usato oltre 400.000 robots che incessantemente hanno ripetuto e amplificato messaggi mirati, diretti a un pubblico selezionato attraverso la geolocalizzazione e segmentazione degli utenti delle reti sociali. Uno strumento altamente sofisticato di cui la destra internazionale si è dotata da qualche tempo. E’ lo stesso Steve Bannon che nei giorni scorsi a Roma ha dichiarato che “l’Italia è il centro dell’universo della politica” insieme alla sua volontà di trasferirsi in Europa per fare da consulente alla destra europea per vincere le elezioni del prossimo anno.
I neo-pentecostali
A differenza dei partiti, altri “corpi intermedi” non hanno perso la capillarità sociale: le chiese evangeliche neo-pentecostali sono popolari e con un consenso di massa. La loro crescita esponenziale è iniziata parallelamente all’offensiva reazionaria da parte del papato di Wojtyla e alla sua stroncatura della “teologia della liberazione” con la rimozione di diversi religiosi impegnati sul versante sociale. Oltre a una fitta struttura di templi religiosi, i neo-pentecostali contano su una vasta rete di mezzi di comunicazione di massa e su sofisticate produzioni di telenovelas: una per tutti la serie “storica” televisiva Moisè, venduta a diversi paesi latino-americani con un forte impatto nell’immaginario popolare.
Il tempo stringe
Mancano meno di 3 settimane al ballottaggio e non sarà facile correggere gli errori commessi. La sinistra dovrà consolidare il voto nel Nord-Est, base sociale di Lula, ampliare le alleanze non solo sulla base alla contrapposizione democrazia-fascismo, ma esprimendo un progetto di società che sappia parlare a tutte e tutti, un progetto di “Stato nuovo” per il XXI° secolo. L’unico che finora è stato in grado di farlo è stato Lula, ma in condizioni economiche favorevoli grazie all’alto prezzo delle materie prime ed al ruolo delle imprese pubbliche, a partire da quella del petrolio (Petrobras) che nel passato è stata la chiave di volta della costruzione della Repubblica del Brasile. Bolsonaro ha avuto il coraggio di dire che non sa nulla di economia e che affiderà questa area a un ministro neo-liberale, Paulo Guedes, strenuo difensore del rapporto con Wall Street, che applicherà la dottrina dei “Chicago boys” alla “cilena”. E il giorno dopo le elezioni, la Borsa di Sao Paulo ha aperto con un rialzo del titolo Ibovespa del 4,57%, un dato che evidenzia che ai “mercati” brasiliani piace l’ex-capitano delle FF.AA.
Fernando Haddad ha visitato in prigione l’ex Presidente Lula da Silva, condannato a 12 anni per corruzione e riciclaggio nella causa Lava Jato. Dopo l’incontro, Haddad ha insistito sulla necessità di “unire tutte le forze democratiche” per sconfiggere Bolsonaro, a partire dal laburista Ciro Gomes, dal dirigente sociale dei senza tetto, Guilherme Boulos e da alcuni governatori regionali del PSB (Partito Socialista Brasiliano). C’è da segnalare l’enorme mobilitazione in Brasile ed internazionale delle donne, che all’insegna del “Ele não” (Lui no) hanno realizzato una enorme mobilitazione contro Bolsonaro.
Le principali centrali sindacali sosterranno Haddad, dato che Bolsonaro rappresenta la continuazione degli effetti negativi della “riforma” del lavoro e della persecuzione nei confronti del movimento sindacale. Al primo turno, CUT e CTB hanno già appoggiato Haddad, mentre i leader di Força Sindical, UGT, CSB e Nova Central erano per lo più con Ciro Gomes (PDT). Sul versante internazionale, esulta la destra continentale che si rafforza. Un governo di estrema destra (violentemente anti-Venezuela, Cuba, Bolivia e anti-tutto ciò che odori lontanamente a “socialismo”) potrebbe dare il colpo di grazia all’integrazione regionale non subordinata ai voleri di Whashington, così come all’’alleanza multi-polare dei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), contrappeso all’unilateralismo statunitense.
La vittoria di Bolsonaro è un pericolo che non va sottovalutato ed esige l’unità delle forze democratiche ed una mobilitazione popolare su obiettivi chiari per impedire l’avanzata del fascismo e riprendere ed approfondire il cammino iniziato nel 2002 con la prima vittoria di Lula. I 17 punti di differenza tra Bolsonaro e Haddad sono molti e significano 18 milioni di voti. Sembra difficile che Bolsonaro riesca a crescere con l’intensità del primo turno e in questi giorni cerca di comprare l’appoggio di deputati eletti nella miriade di piccoli partiti di “centro”. Dal canto suo Haddad deve trovare consensi tra i 50 milioni che non lo hanno votato, che hanno votato in bianco o nullo o che si sono astenuti.
Un compito difficile, tutto in salita, ma non del tutto impossibile.
[i] http://www.rebelion.org/noticia.php?id=247252, rivista “La Correo” Nº 79 de octubre de 2018
[ii] https://foreignpolicy.com/2018/10/05/bolsonaros-model-its-goebbels-fascism-nazism-brazil-latin-america-populism-argentina-venezuela/