Una ricorrenza dai molti significati attuali
Il 15 maggio è una ricorrenza di particolare importanza per i palestinesi perché è il giorno in cui celebrano la Nakba, la ‘catastrofe’, tramite la quale viene mantenuto vivo il ricordo della cacciata dalle proprie abitazioni di centinaia di migliaia di persone e la mancata nascita del proprio stato
15 maggio 2016 di Andrea Vento
La data prescelta per questa ricorrenza ha un elevato significato simbolico: il 15 maggio del 1948 infatti segna l’inizio della prima guerra arabo-israeliana, che si concluderà ad inizio del 1949 con la vittoria del neocostituito stato ebraico, e l’inizio del calvario del popolo palestinese che in circa 70anni, a seguito di una serie infinita di vicende avverse, ha portato alla drammatica situazione attuale. Caratterizzata da:
- regime di occupazione militare;
- espropri e colonizzazione delle terre;
- violazione sistematica dei diritti umani – delle risoluzioni ONU ed espulsioni sia individuali che di massa; continuativi con conseguente creazione di una tale entità di profughi che, ad oggi, metà del popolo palestinese vive al di fuori dei cosiddetti “Territori occupati”, acquisendo il poco invidiabile status di “popolo della diaspora”.
La celebrazione della Nakba, col passare dei decenni, ha assunto pertanto un valore più ampio: se da un lato rappresenta il giorno dell’identità nazionale palestinese dall’altro cerca di mantenere viva l’attenzione internazionale in merito alla negazione di diritti, in primis quello all’autodeterminazione, e alle insostenibili condizioni di vita in cui è costretto.
Se la Nakba è un evento che da un lato unisce l’intero popolo palestinese, dall’altro costituisce elemento di contrapposizione all’interno dello stato di Israele e della comunità ebraica, in generale. La controversia ha iniziato ad emergere a seguito delle ricerche storiche effettuate, a partire dagli anni 80′, dalla corrente dei “Nuovi storici” israeliani sulle vicende verificatesi in Palestina nel decennio 1940/50 al dichiarato fine di ricostruire l’effettiva realtà, rispetto a quanto narrato
dalla versione “ufficiale”, in merito agli eventi che nello specifico hanno portato alla partizione della Palestina, alla fondazione dello stato di Israele e alla espulsione dei palestinesi dalle proprie terre.
A tal proposito particolare rilevanza scientifica ha assunto l’opera di Ilan Pappe, leader di questa corrente, che ha effettuato approfondite ricerche storiche spinto dalla necessità, imprescindibile per uno stato effettivamente democratico, di formare l’opinione pubblica e, soprattutto, le giovani generazioni sulla base di una versione veritiera del processo fondativo di Israele, in modo che i suoi cittadini potessero acquisire l’effettivo passato del proprio paese e su questo costituire la propria coscienza personale, affrancandosi dalla versione propagandistica del movimento sionista che era stata elevata a verità storica nazionale e fedelmente riportata nei libri di storia e nei testi scolastici.
La versione ufficiale israeliana riporta che alla scadenza del Mandato britannico sulla Palestina Storica (Israele e Territori palestinesi occupati), le Nazioni Unite avevano deliberato, tramite la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, la partizione della regione in due stati: mentre il movimento sionista si era dichiarato favorevole, il mondo arabo e i palestinesi si opposero, per cui il giorno dopo la fondazione dello stato di Israele, proclamato alla mezzanotte del 14 maggio del 1948, entrarono in guerra contro di esso e convinsero i palestinesi ad abbandonare le proprie case per facilitare le manovre degli eserciti arabi, nonostante gli appelli dei leaders ebrei a rimanere.
La tragedia dei profughi palestinesi secondo questa versione non sarebbe dunque imputabile ad Israele ma agli arabi stessi nonostante a quella data già 250.000 palestinesi fossero già stati espulsi. I “new historians” israeliani hanno sempre contestato questa versione e, dopo lunghi e approfonditi studi compiuti sulla documentazione ufficiale del movimento sionista e sugli archivi militari israeliani desecretati nel 1998, giunsero ad una ricostruzione storiografica che era in netto contrasto con quella “ufficiale”:
Fin dagli anni 30′, i vertici del movimento sionista, sotto la guida di Ben Gurion, futuro padre fondatore di Israele, avevano programmato un piano di pulizia etnica della Palestina con gravi implicazioni morali e politiche, in quanto definire in questi termini ciò che Israele attuò nel 1948 significa accusare la sua leadership di un crimine. Un crimine contro l’umanità nel linguaggio giuridico internazionale. Tuttavia, finalità dell’opera di Ilan Pappe, che ha raccolto e pubblicato i frutti della propria ricerca storica nel libro “La pulizia etnica della Palestina”, non era l’incriminazione dei suoi fautori quanto indurre i propri connazionali e l’opinione pubblica mondiale ad ammettere questo “peccato originale” come precondizione per l’avvio di un equo processo di pace fra israeliani e palestinesi.
L’opera di Pappe ha però incontrato la netta opposizione dei vertici politici e di gran parte della società e del modo accademico del proprio paese fino a costringerlo a lasciare il suo paese e l’Università di Haifa e a trasferirsi nel Regno Unito per insegnare all’Università di Exeter e da li, continuare la sua battaglia per l’affermazione della verità sulla fondazione di Israele.
Ricostruzione storiografica che continua ad essere fermamente negata ancora oggi dai governi e dai media israeliani profondamente impregnati dell’ideologia sionista e sempre più ostaggi del movimento ultraortodosso dei coloni.
La rigorosa ricerca storica di Pappe ha dimostrato in modo inconfutabile, in quanto basata anche sui documenti del movimento sionista stesso, come le prime azioni ai danni dei palestinesi siano iniziate sin dal dicembre del 1947, all’indomani della Risoluzione Onu 181, e siano state intensificate a partire dal 10 marzo successivo, allorché venne approvata, nella Casa Rossa di Tel Aviv sede della leadership sionista, la quarta versione del “Piano Dalet” contenente i dettagli dei metodi da utilizzare per la sistematica espulsione dei palestinesi dal territorio assegnato dall’Onu al futuro stato di Israele.
Il Piano Dalet come afferma lo stesso Pappe “era il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere una esclusiva presenza ebraica in Palestina” e occorsero “6 mesi per portare a termine la missione.
Quando questa fu compiuta più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone era stata sradicata, 531 villaggi e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti”. La dolorosa recente storia del popolo palestinese non è confinata ai soli eventi degli anni 40′ in quanto nei decenni successivi ne viene registrata una lunga serie, alcuni dei quali ancor più gravi per l’impatto sulle loro condizioni di vita, fra i quali spicca indubbiamente la “Guerra dei sei giorni” del 1967 i cui esiti hanno relegato i palestinesi alla condizione di popolo sottoposto ad occupazione militare e prodotto una seconda tragica ondata di profughi.
Secondo l’impostazione della ricerca di Pappe, le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quanto avvenne in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di Pulizia etnica: “da un lato la versione sionista-israeliana sostiene che la popolazione se andò ‘volontariamente’, dall’altro i palestinesi parlano di una ‘catastrofe’ che li colpì, Nakba, un termine che in qualche modo si riferisce al disastro in sé e non tanto a chi o a che cosa lo ha provocato.
Il termine Nakba fu adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell’Olocausto ebraico, ma l’aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente”.
Un peccato veniale che tuttavia non cancella il pieno significato che questa giornata rappresenta per il popolo palestinese, vittima di errori propri ma, soprattutto, di un contesto geopolitico internazionale che, soprattutto negli ultimi anni, ha volto lo sguardo altrove rispetto al sistematico abuso del diritto internazionale compiuto ai loro danni e avallato, al di là dei proclami ufficiali, sotto le mentite spoglie di una farsa dal nome “Processo di pace”, le strategie israeliane tese a guadagnare tempo a vantaggio dell’inesorabile l’attuazione dell’originario progetto di esproprio e di colonizzazione delle terre palestinesi e di annessione unilaterale di Gerusalemme.
Ricordare la Nakba oggi, a 68 anni, di distanza significa mantenere viva l’attenzione sui diritti negati del popolo palestinese al fine di indurre l’opinione pubblica internazionale prenderne realmente coscienza e ad esercitare pressioni sui propri governi affinché dopo 70 anni si giunga ad un loro definitivo riconoscimento.