14 settembre 2016 di Antonio Tricarico
Domenica 4 settembre si è chiuso il vertice dei capi di Stato e di governo del G20 a Hangzhou, il primo della storia ospitato dalla Cina. Un’occasione per questo paese ed il suo Presidente Xi per legittimarsi ancora di più sulla scena internazionale come potenza globale. Eppure dietro i discorsi retorici e i comunicati finali come non mai è emersa la debolezza e poca credibilità del club delle 20 economie più influenti sul pianeta.
Nato alla fine del 2008 per fronteggiare la grave crisi economica e finanziaria originata negli Stati Uniti e poi ufficializzato con il vertice di Londra del 2009 come principale forum globale per il coordinamento delle politiche economiche, finanziarie e monetarie, scalzando l’obsoleto G8, a distanza di 7 anni il G20 ha raggiunto ben pochi risultati, soprattutto sul fronte della regolamentazione del settore finanziario. Nel frattempo i conflitti e le tensioni nel mondo si sono acuiti, basti pensare alla crisi in Siria ed alle tensioni nel Mar Giallo tra la Cina e suoi vicini, e non sono mancate neanche accuse al vetriolo tra i membri del Club.
Dal vertice di Hangzhou esce un inno roboante, quanto fragile, elevato alla globalizzazione liberista, processo che versa fortemente in crisi. Si chiede una crescita inclusiva e sostenibile, lavoro e sviluppo, ma di fatto il G20 insiste che la globalizzazione liberista è l’unica strada, sia che si tratti di vecchie potenze che di quelle emergenti.
Nonostante ”l’accordo contro il protezionismo”, in realtà i leader si sono rinfacciati in primis questo mantra tra loro stessi, visti i vari recenti episodi di protezionismo nel commercio mondiale, ma anche l’incapacità di promuovere autentiche politiche espansive e di crescita in presenza ancora di sorpassati e dannosi vincoli monetaristi.
Utilizzando le parole del ministro Padoan al forum di Cernobbio qualche giorno fa, siamo ancora in presenza di un’economia mondiale dove i risparmi e le riserve sono sempre enormi rispetto ai sempre pochi investimenti, perché questi non sono così sicuri e soprattutto redditizi come un tempo. Una crisi di accumulazione di capitale che continua ad affliggere vecchi e nuovi mondi. Infatti, la stessa economia cinese ha problemi a continuare a crescere con tassi a doppia cifra, ed è in presenza anche di una sovrapproduzione di merci – si pensi solamente all’annosa questione dell’acciaio. Da qui la Presidenza Xi ha impresso un forte cambio di marcia, riconoscendo che il mercato interno, seppur grande, non basterà mai ad assorbire l’eccesso.
Ed allora serve mettere il turbo al commercio mondiale che arranca: la crescita dei flussi transfrontalieri di beni, servizi e finanza è, infatti, stagnante da sei anni dopo un crollo dal 53 al 39 per cento del PIL globale con la crisi del 2008.
Da ciò nasce l’ossessione cinese e del G20 per le mega infrastrutture e la creazione di nuovi corridoi faraonici che connettano i punti di estrazione delle materie prime, i luoghi di produzione e i nodi di consumo globale. Di fatto un piano per una concentrazione di queste funzioni a livello globale, e ad ogni costo. Più estrattivismo di petrolio e risorse naturali (ma come si concilia questo con gli impegni sul clima dello stesso G20?), creazione di corridoi di autostrade, oleodotti, reti di trasmissione di energia, e mega porti con zone franche da cui partono rotte marittime accelerate.
I cinesi lo chiamano One Belt, One Road, rispolverando il mito della Via della Seta che connetteva l’Oriente con l’Europa, sia via terra che via mare, passando per l’Africa orientale ed il Medio Oriente.
Un progetto di globalizzazione 2.0, che fa impallidire quella vissuta fino ad oggi. E che approfondirà l’apartheid globale tra chi è parte del club e chi ne è escluso e pesantemente represso. Una miopia politica agghiacciante dei venti leader che non ascoltano le voci degli esclusi e degli sconfitti della globalizzazione, nel Sud come nel Nord globale: basti pensare ai votanti per la Brexit, o nella Germania Est per l’estrema destra. Credere che la turbo-globalizzazione genererà inclusione è un discorso ancora più populista ed ipocrita dei nuovi populismi che cavalcano gli esclusi.