Politiche salariali: una storia su cui riflettere, per cambiare rotta

La storia incredibile del rinnovo dei contratti nazionali

9gennaio da Marcello Pantani, Cobas Pisa/Livorno

I contratti nazionali si rinnovano sempre meno frequentemente, fra la loro scadenza e il loro rinnovo passano anche 3 anni e più (com’è successo nell’igiene ambientale), mentre quello multiservizi è avviato verso i 4 anni e sorte analoga riguarda settori del commercio che fanno capo ad associazioni imprenditoriali diverse da Confcommercio, la quale, invece, una volta rinnovato il contratto, ha preteso e ottenuto da Cgil-Cisl-Uil di saltare la seconda rata di aumento salariale!

È andata di “lusso” ai metalmeccanici (circa 800mila dipendenti) delle aziende associate in Federmeccanica/Confindustria, il cui contratto è stato rinnovato 12 mesi dopo la scadenza! Ma i più “fortunati “sono i dipendenti pubblici: aspettano il rinnovo del contratto da 7anni! Si dirà: meglio tardi che mai e, poi, chissà quanti begli aumenti salariali le imprese saranno state/saranno disposte a scucire per farsi perdonare questi ritardi?

E che rinnovi!

Errore! Negli ultimi 8anni le imprese (come anche lo Stato, rappresentato dai governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) non solo si sono tenute i miliardi di euro illegittimamente non corrisposti ai loro dipendenti, ma al momento della sigla dei rinnovi o delle intese sulle linee guida per arrivarci chissà quando (com’è successo a fine novembre per il pubblico impiego) hanno fatto carte false per cavarsela con una elemosina: niente arretrati; aumenti salariali in 3 rate (calcolati sulla base dell’inflazione al netto del prezzo dei prodotti energetici d’importazione ed equivalenti, a regime, a poco più di un caffè al giorno); peggioramento del trattamento economico per le assenze per malattie brevi.

Per non parlare dell’aumento dell’orario di lavoro settimanale a parità di salario (è successo nell’igiene ambientale!); della flessibilità generalizzata dell’orario; dell’aumento dello straordinario obbligatorio; del ridimensionamento del diritto di sciopero; del riconoscimento alle aziende della pretesa di peggiorare sul piano aziendale la normativa del contratto nazionale. Naturalmente i padroni privati e il padrone pubblico non compiono queste gesta da soli: se così fosse, non si tratterebbe di contratti. Le compiono con l’adesione dei sindacati firmatari, che sono sempre Cgil-Cisl-Uil, più l’Ugl, più qualche sindacato cosiddetto autonomo (Fiadel, Confsal, ecc.). I quali giustificano il loro operato col ritornello: “Siamo in un momentaccio, meglio non si poteva”.

Un’altra storia incredibile: quella della “scala mobile”.

Ce lo dicono da sempre, in particolare dagli accordi interconfederali del luglio 1992 e del luglio 1993, con cui si abolì la “scala mobile dei salari” (che dava luogo alla voce salariale della “contingenza”, finalizzata a far fronte all’aumento del caro-vita) e si stabilì che i rinnovi dei contratti nazionali non prevedessero più, com’era avvenuto fino ad allora, aumenti salariali finalizzati a permettere agli operai di migliorare la qualità della loro vita, ma si limitassero a immettere in busta paga solo un adeguamento del potere d’acquisto delle retribuzioni falcidiate dalla crescita dei prezzi.

Adeguamento sempre al ribasso, perché basato sull’inflazione calcolata in modo truffaldino dall’Istat.

In compenso, sindacati e padroni ci “gratificarono” con una sorta di ”premio di consolazione”, consistente in una elemosina chiamata EDR (Elemento Distinto della Retribuzione) di 20 mila lire (adesso 10,33 euro), per farci dimenticare lo scippo della scala mobile e tutte le altre malefatte! Bettino Craxi, ormai fuori dai giochi politici ma dentro al sistema delle tangenti e della corruzione, ringraziò, visto che nel 1984 aveva progettato di attaccare pesantemente la scala mobile, accontentandosi al momento di alleggerirla di 4 punti, equivalenti a qualche decina di migliaia di lire. Un furto di Stato, che dura da 36 anni, visto che questi 4 punti non sono più rientrati in gioco e non sono assolutamente presenti nella voce della “contingenza” congelata in busta paga dopo la sua abolizione.

A proposito di momentacci.

E si guardano bene dal dirci, i soliti sindacati, che nel “momentaccio” ci sono da tempo immemorabile i lavoratori, perché questi sindacati non fanno che concordare con padroni e governi politiche economiche e sociali che aggravano le nostre condizioni di vita e di lavoro, o, per cercare di non perdere la faccia, magari talvolta non arrivano fino a concordarle, però non promuovono l’opposizione del mondo del lavoro dipendente a quelle stesse politiche. Chi non ricorda che nel 2011 alla spietata controriforma delle pensioni imposta dal governo Monti-Fornero la “risposta” sindacale di Cgil-Cisl-Uil fu uno “sciopero generale” di 3 (tre!) ore?

E che nel 2012, sul primo assalto (quello della solita ministra Fornero) all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (il secondo è arrivato nel 2015 dal signor Poletti, ministro di punta della banda Renzi-Boschi), si mobilitarono qua e là, spontaneamente, solo alcune fabbriche, grazie all’iniziativa di delegati dell’opposizione interna alla Fiom e dei sindacati di base, lasciati soli dallo stato maggiore di Cgil-Cisl-Uil, che li stette a guardare speranzoso che si sentissero abbandonati e infine desistessero?

Che fare?

Ogni tanto si “scopre” che i salari in Italia sono tra i più bassi dell’Europa occidentale e che peggio va solo in Spagna e Portogallo, dove però il costo della vita è più basso che da noi. La paga media oraria in Italia si ferma a 12,50 euro, mentre quella media dell’Unione Europea è di 13,20 euro, ma questo dato risente pesantemente dei bassi salari dei Paesi dell’Europa orientale dove, comunque, il costo della vita è enormemente più basso. Non è il caso di riferire, per non deprimerci troppo, la paga media oraria in Germania o nei Paesi scandinavi! In Francia, che certo non brilla economicamente, la paga media oraria è di 14,90 euro. In Italia, quindi, non c’è nessuna ragione di competizione con gli altri Paesi, come dicono padroni, governi e sindacati firmatari, per tenere ingiuriosamente bassi per i lavoratori gli aumenti retributivi nei rinnovi dei Contratti, o per rinnovarli con ritardi di anni, o per riempirli di norme che sono degli autentici capestri. C’è solo la volontà di schiacciare i lavoratori, di privarli della loro stessa dignità.

La lotta per il salario, a questo punto, diventa fondamentale, non solo per legittime ragioni economiche, ma anche per imporre il rispetto dei lavoratori, come persone e come classe sociale.

Se Cgil-Cisl-Uil non ci stanno, la mobilitazione non ha che da partire dal basso, dagli operai che si riferiscono all’opposizione in Cgil e ai sindacati di base, dai delegati combattivi. Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, malgrado l’esercito della Germania nazista avesse invaso l’Italia e le truppe fasciste collaborassero con loro, gli operai di numerose fabbriche, sfidando feroci ritorsioni e rappresaglie, si impegnarono massicciamente in azioni di sciopero: contro la guerra, per il salario, per la dignità. Non è necessario essere degli eroi per farlo oggi.

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