Una questione irrisolta
27agosto 2016 di Pier Francesco Zarcone Postato da M.D.M. su Red Utopia Roja
Di recente nel quadro del già complicato scenario del conflitto siriano è esplosa la questione curda, con violenza e foriera di complicazioni notevoli per tutti i soggetti del Vicino e Medio Oriente che ne temono i contraccolpi. Le loro preoccupazioni sono aggravate dal palese e massiccio appoggio ai Curdi di Siria da parte degli Stati Uniti, direttamente presenti sul terreno a prescindere dal non esservi stati chiamati da quello che – piaccia o no – in base al diritto internazionale è il legittimo governo della Siria (simpatie e antipatie rimangono extragiuridiche) e con cui mantengono regolari rapporti paesi non di secondo piano come l’India e la Cina. I soggetti in questione sono notoriamente Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Emersa con la fine della Grande Guerra, la questione curda è rimasta irrisolta non tanto per la cattiveria e l’ottusità dei governanti di quei paesi – che tuttavia ci sono state e l’hanno aggravata – quanto e soprattutto a causa di due fattori geopolitici: la frammentazione del Kurdistan geografico all’interno delle entità statali costituite da Gran Bretagna e Francia per i rispettivi interessi imperialistici (il caso della Turchia kemalista è del tutto a parte); nonché i fragilissimi “equilibri” interni di tali nuovi Stati (dalle frontiere palesemente tracciate col righello sulla carta geografica) sotto i profili etnico, religioso e sociale; di modo che i loro poteri centrali hanno visto un concreto pericolo di disintegrazione nella pur minima concessione di autonomia alle minoranze curde.
In linea generale della questione curda per decenni e decenni non è importato molto alle potenze esterne all’area, mentre in essa gli Stati spesso e volentieri hanno cinicamente e in vario modo appoggiato i Curdi altrui mentre reprimevano quelli di casa propria. Mancando appoggi internazionali, è mancata altresì la strumentalizzazione esterna del problema, naturalmente a scapito ulteriore dei Curdi: non si dimentichi il male derivato agli Armeni alla fine dell’Impero ottomano a causa delle istigazioni esterne in senso nazionalistico senza proposizione di soluzioni concrete e possibili, ma sostenute da reiterate e mai mantenute promesse di aiuto e difesa.
Le premesse
Esistendo l’Impero ottomano, era assente una «questione curda», al pari del nazionalismo arabo, limitato a ristrettissime élite senza radici popolari: il mito di Lawrence d’Arabia – sicuramente ben costruito sul piano mediatico – è del tutto fuorviante, tant’è che quel personaggio mobilitò (a pagamento) solo qualche migliaio di beduini del deserto fra le attuali Giordania e Arabia Saudita. Le cose invece cambiarono per tutti a seguito del crollo di quell’Impero.
Le grandi potenze europee vincitrici della Grande Guerra si limitarono a prospettare la nascita di un Kurdistan indipendente (destinato a finire sotto l’influenza britannica) nel Trattato di Sèvres (10 agosto 1920): i confini di questo Stato li avrebbe dovuti tracciare definitivamente un’apposita commissione della Società delle Nazioni. Quel Trattato nasceva però nella fase immediatamente postbellica, caratterizzata dall’illusione dei vincitori di poter estendere all’Anatolia la disintegrazione dei vecchi domini ottomani; illusione fatta presto naufragare dalla vittoriosa guerra d’indipendenza turca guidata da Mustafa Kemal. In conclusione, il successivo Trattato di Losanna (1923), firmato dagli Alleati e dal rappresentante di Kemal sulle ceneri di quello di Sèvres, non fece più menzione di un Kurdistan indipendente. A far “digerire” questo assetto giuridico ai nazionalisti curdi d’Anatolia ci pensò la repressione dell’esercito kemalista.
Ormai i Curdi erano essenzialmente suddivisi fra Turchia, Siria e Iraq. Ovviamente per ragioni di spazio dobbiamo fare dei salti storici, per cui diciamo solo – per quanto riguarda i Curdi di quest’ultimo paese – che una lunga e aspra lotta ha consentito loro di ritagliarsi un Kurdistan autonomo, poi federato all’interno della Repubblica irachena solo grazie alle contingenze belliche culminate nella caduta del regime di Saddam Husayn. Nel Kurdistan iracheno a dominare oggi è il Partito Democratico del Kurdistan (in curdo Pārtī Dīmūkrātī Kūrdistān), fondato nel 1946 dal leggendario “Mullah rosso” Mustafa Barzani – guidato oggi dall’attuale Presidente di quella entità, Mas’ud Barzani – insieme all’ex nemica Upk, ovveroUnione Patriottica del Kurdistan (Eketî Niştîmanî Kurdistan) di Jalal Talabani, a sua volta diventato Presidente dell’Iraq dopo la caduta del regime baathista. Per quanto riguarda la Turchia è nota la persistente guerriglia che dal 1984 conduce il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan, Pkk; in turco Kürdistan İşçi Partisi).
Dal punto di vista politico, fra la repressione irachena e quella turca esiste una differenza ideologica non lieve: in Iraq si è repressa un minoranza che era vista come tale, mentre in Turchia è stata addirittura negata ai Curdi la loro diversità etnica, linguistica e culturale in genere rispetto ai Turchi (per non complicare la vita, lasciamo stare cosa si debba intendere oggi per “turco”) mediante il comodo (e fallace) termine di “Turchi della montagna”.
I curdi di Siria con Ankara che non sta a guardare
In Siria il precipitare della crisi bellica ha propiziato tra i Curdi locali un’evoluzione del Partito dell’Unione Democratica, o Pyd (Partiya Yekîtiya Demokrat, in arabo Hizb al-Ittihad al-Dimuqratiy), nel senso di portare nel 2004 alla creazione di una forza paramilitare denominata Unità di Protezione Popolare (Yekîneyên Parastina Gel, Ypg) col compito originario di proteggere dai jihadisti le zone siriane a concentrazione curda (circa 600.000 abitanti). Dal 2014 l’Ypg ha dovuto fronteggiare l’espansione dell’Isis, ricevendo massicci rifornimenti statunitensi e conseguendo vari successi sul campo, a cominciare dalla difesa di Kobane. Inizialmente il governo di Damasco, per quanto senza soverchia simpatia, non l’ha osteggiato, ma di recente la situazione si è capovolta e gli attuali scontri armati con l’Ypg nelle città di Hasakah e Qamishly – aiutati anche con chiare minacce all’Esercito Arabo Siriano da parte degli Stati Uniti – attestano che ormai si è aperto un nuovo fronte bellico fra truppe regolari siriane e Ypg. Un fronte estremamente pericoloso, in cui la Russia dovrà svolgere un improbo compito di contenimento per evitare che si arrivi a combattimenti coinvolgenti truppe statunitensi (che in Siria non dovrebbero esserci) e da cui solo l’Isis trarrebbe vantaggio.
È palese che, dopo i fallimentari esperimenti del cosiddetto Esercito Libero Siriano e dei ribelli musulmani “moderati”, ovunque battuti da an-Nusra e dall’Isis (famoso il fallimento della Division 30 formata da turkmeni “moderati” addestrati dagli Usa e costati 500 milioni di dollari, letteralmente sbaragliata da an-Nusra appena arrivata in Siria), gli Stati Uniti abbiano individuato nei Curdi dell’Ypg uno strumento militarmente assai più valido al fine di creare basi più solide per la futura disgregazione della Siria. Da qui la presenza di militari statunitensi con divise curde, le cui foto sono comparse anche nella stampa italiana, e da qui i combattimenti ad Hasakah e Qamishly contro le truppe siriane. Non a caso quelli dell’Ypg parlano apertamente di una Rojavayê Kurdistanê, o più semplicemente Rojava, cioè di una regione autonoma curda nel nord e nordest della Siria, per la quale a novembre del 2013 il Pyd aveva già annunciato la creazione di un governo interinale riguardante i tre “cantoni” di Afrin, Jazira e Kobane. Le manovre statunitensi con l’Ypg non potevano lasciare indifferente la Turchia; e infatti – oltre a quello curdo-siriano – si è aperto un fronte curdo-turco. Ricordiamo per inciso che per Ankara l’Ypg è semplicemente una filiale del Pkk; a complicare il quadro c’è che il partito curdo iracheno di Barzani è nemico tanto del Pkk quanto dell’Ypg. Alle 4 del mattino del 24 agosto l’esercito turco ha avviato nel nord della Siria l’operazione “Scudo dell’Eufrate” al fine di eliminare le minacce dell’Isis ma soprattutto delle forze curde siriane, come ha dichiarato lo stesso Recep Tayyip Erdoğan, aggiungendo – tanto per esser chiari – che nessuno può pensare alla situazione siriana come indipendente dagli affari interni della Turchia. L’obiettivo è la città di Jarablus, e consisterebbe nel farvi entrare, prima dell’Ypg, elementi dell’Esercito Libero Siriano. Ma come se non bastasse, l’Agenzia Reuters ha raccolto la dichiarazione di un alto funzionario statunitense, il quale ha annunciato copertura aerea degli Stati Uniti alla Turchia durante l’operazione militare contro i terroristi dell’Isis a Jarablus! Qui la logica formale serve a poco.
D’altro canto – poiché l’Ypg fa parte della coalizione di Obama a cui partecipa (a parole) anche la Turchia – l’operazione “Scudo dell’Eufrate” verrebbe ad essere una specie di conflitto fra presunti coalizzati. Ma non già un’anomalia nelle politiche del Vicino Oriente, in cui i cambi di fronte non avvengono necessariamente in successione cronologica, bensì possono essere in contemporanea: vale a dire, l’alleanza di A, B e C contro D non esclude che a un certo punto alla comune lotta si aggiunga un conflitto tra A e C.
Certo è che la politica estera turca è oggi del tutto inaffidabile perché volatile, ed essendo decisa da un unico soggetto (Erdoğan) c’è da chiedersi se sappia cosa voglia e come ci voglia arrivare. Per Erdoğan l’asse Stati Uniti-Ypg è di estrema pericolosità e farà di tutto per ostacolarlo; questo l’ha portato a esternare la sua contrarietà a un assetto postbellico della Siria secondo linee etnico-confessionali, facendo pensare a taluni osservatori che ad Ankara adesso potrebbe anche andare bene la permanenza al potere di al-Assad e del Baath, cosa non del tutto sicura. Al momento i rapporti della Turchia col Kurdistan iracheno sembrano “normalizzati”, e innegabilmente questa regione si è giovata assai degli investimenti economici turchi e di un certo appoggio politico; d’altra parte l’inimicizia di Barzani verso il Pkk è ancora una garanzia perdurante. Inoltre – e non da ultimo – l’esportazione di gas naturale e petrolio dal Kurdistan iracheno deve passare attraverso la Turchia. Proprio l’appoggio al – e del – governo curdo di Erbil appare essere una carta positiva per Erdoğan, a patto che riesca a evitare intese fra Curdi iracheni e Curdi di Siria e Turchia. È certo una scommessa, tenuto conto di quanto si dirà fra poco. Ma il vero problema di Ankara non è fuori dalle frontiere, poiché solo se riuscisse a realizzare un qualche grado di normalizzazione con i propri Curdi, così da ridurre di molto la presa del Pkk, potrebbe evitare che la carta curda sia giocabile dai propri nemici o alleati di dubbia lealtà.
Intanto nel Kurdistan iracheno…
Non è chiaro cosa potrebbe derivare dal referendum (originariamente preannunciato per il 2014) che si dovrebbe presumibilmente tenere fra settembre e ottobre nel Kurdistan iracheno, qualora vincessero gli indipendentisti. Al riguardo la dirigenza di Erbil si è attestata su una posizione conciliante, avendo preannunciato che in ogni caso la questione verrebbe discussa col governo di Baghdad per evitare effetti dirompenti. Si può azzardare a ritenere che – a parità di condizioni – ritrovandosi l’eventuale Stato curdo mesopotamico stretto fra Iraq e Turchia soprattutto sul piano economico, forse la situazione non muterebbe granché. Ma i giochi restano aperti.
L’iniziativa referendaria – oltre a esprimere le forti differenze ideologiche tra i Curdi iracheni e i Curdi turchi e siriani, e quindi a mandare per aria i sogni (velleitari) di un Kurdistan unito – risponde a un grave contenzioso tra Erbil e Baghdad circa la ripartizione dei proventi da gas e petrolio, tanto che dal 2014 Erbil ha iniziato a effettuare vendite in autonomia, cioè senza passare per Baghdad. Il mancato trasferimento di fondi dalla capitale a Erbil avrebbe provocato una grave crisi economica e un deficit per i Curdi di almeno 406 milioni di dollari (ma l’opposizione curda al partito di Barzani accusa di nascondere il reale valore delle vendite di greggio e gas, e di fabbricare una crisi economica solo per reprimere le opposizioni e favorire politiche autoritarie).
Per la popolazione la crisi tuttavia morde. I dipendenti pubblici (oltre un milione e mezzo, pari al 25% della forza-lavoro) non ricevono il salario da cinque mesi, aumentano i disoccupati e il 20% del popolo vive sotto la soglia di povertà, giacché anche lì i proventi delle esportazioni energetiche vanno a favore di un’élite economica che è anche politica. Recentemente il governo di Baghdad ha promesso di scongelare il trasferimento congiunto per fronteggiare la crisi, aggravata dal crollo del prezzo del petrolio. Tutto questo per dire che anche il Kurdistan iracheno è meno stabile di quanto potesse apparire e che un suo eventuale collasso costituirebbe una catastrofe nella catastrofe, con Raqqa e Mosul ancora nelle mani dell’Isis.