Nessuna nazione vanta una giustizia perfetta, neppure l’America degli autori di film holliwoodiani o dei gialli alla John Grisham ci presenta un paese ove non vi sia l’accusa di “politicizzazione” ai giudici e ai magistrati di ogni ordine e grado.
26aprile 2015 di Ennio Succi
Non c’è sistema giudiziario ove un giudice non abbia sotto la toga le specificità individuali e politiche della società in cui vive, trattandosi non di ectoplasmi, ma di esseri che in quella società sono vissuti. Il giudice “apolitico” è il mito degli orfici, una cosa inesistente, di cui abbiamo sentito parlare per oltre un ventennio di centro-destra, con danni incalcolabili sulla cultura del Paese. Un’araba fenicia utilizzata da chi si deputava perseguitato per ragioni politiche o è stato sorpreso con le mani, non nelle tasche, nell’offertorio della Chiesa.
Un esempio. I magistrati inquirenti ed i giudici statunitensi son così poco “apolitici” che la politica nomina tutte le toghe. I 50 procuratori federali, che nei vari Stati applicano la legge nazionale o federale sono funzionari nominati dal presidente, soggetti anche allo spoil-system ad ogni cambio di colore del leader nazionale eletto. I giudici d’appello sono scelti e proposti dal presidente in carica, ed esaminati, dal Senato. Ogni Presidente o Senatore potrà non avere niente, tranne che le proprie tendenze politiche. E proprio perché i giudici possono sbagliare, cambiare l’interpretazione e applicazione delle stesse leggi, il “patto” nazionale di rispettare la Magistratura va mantenuto. Solo così la Repubblica continua a conservarsi intatta.
La giustizia, quale organo incorporante diversi sistemi fatti di procuratori, giurie, giudici, corti, e non “apoteosi” dell’omniscienza sul giusto, è lo scranno della società, e intarlarlo non serve alla comunità. Questa sacralità ha, anche zeppa di errori, uomini mediocri o criminali, un’indispensabile premessa: rispettare le regole, la cui validità deve essere per ognuno, anche per il Berlusconi di turno, o per il Ghedini più brillante. Ma il sistema giudiziario italiano come opera realmente? Quali sono le norme opportune e quali invece ostacolano l’agire della magistratura contro la criminalità organizzata? E che provvedimenti servirebbero?
Dopo un ventennio di berlusconismo non è proprio facile parlare di questi aspetti. Il cielo è molto grigio ancora, e l’aria è pesantissima. Una cosa è certa: aggiungere considerazioni cupe in uno scenario già difficile è come castrarsi o infibulizzarsi. Però, anche se la politica suona mentre la nave affonda, come nel Titanic, occorre guardare avanti. La “bilancia” meriterebbe una riforma seria, manifestazione di scelte condivise e nell’interesse di tutti.
Il riformare porta all’idea di qualcosa da correggere, cambiare, migliorare. Tutte le proposte governative, fino ad oggi, non paiono in grado di sciogliere i tanti problemi della giustizia: lunghezza dei processi, carenze di organico nei tribunali e nelle procure dedicate alla lotta contro mafia e disonestà politico amministrativa. Non si sente ancora parlare delle riforme che potrebbero facilitare la giustizia: il riesame delle circoscrizioni giudiziarie, ancora sistematizzate sullo schema ottocentesco, allorquando le lontananze erano percorse coi muli, la diminuzione della quantità dei tribunali, l’uso della semplice posta elettronica per notificare gli atti.
Una cosa l’attuale governo l’ha fatta, al dire il vero, e cioè depenalizzare i reati minori per assegnare il processo penale agli argomenti di più alto allarme sociale. Ma quante e quali mistificazioni la lontananza culturale della gente da questo problema reale ha prodotto! Ad oggi, l’inefficienza del sistema giudiziario è la priorità da affrontare, di pari grado d’importanza come la disoccupazione. Circa 10milioni, le fonti si possono trovare ovunque su questo dato, di processi impregiudicati sono una “muraglia cinese”. Ma per sciogliere queste difficoltà ci vuole un limpido confronto sociale e istituzionale, rispettando i ruoli di ciascuno. Politici, magistrati, cittadini dovrebbero considerare attentamente lo stato della giustizia, non scontrarsi, delegittimandosi reciprocamente.
Troppe sono le cose che non vanno. Si dice che “la legge dovrebbe rappresentare il potere di chi non ha potere”, invece sempre più spesso, troppo, non è “uguale per tutti”, facendo prevalere nel paese l’opinione che essa, per alcuni, sia più uguale che per altri. Bendare gli occhi alla giustizia perché “passasse sopra” qualche caso, un tempo, “nel comune sentire” veniva considerato prerogativa dei “ricchi” con “amici potenti”. Nel ventennio trascorso le diseguaglianze sono state legittimate, addirittura, dal Parlamento, con leggi che han punito più gravemente l’immigrazione clandestina che il falso in bilancio, o la corruzione per atto d’ufficio. Benvenuti, allora, l’abolizione del reato di clandestinità e il ripristino di leggi pesanti contro il falso contabile che il governo Renzi ha introdotto. Ma il danno culturale è stato enorme e solo chi è di “parte” può continuarne a blaterarne l’inesistenza.
Intanto, le mafie continuano a estendersi e investono nelle zone più ricche del paese. Si muovono subdolamente, invisibili e si confondono tra gli onesti. Pochi denunciano, ormai sfiduciati, e la politica minimizza, come se la criminalità organizzata non fosse una “questione aperta da 150 anni”. E nell’opinione pubblica fanno più spavento dei Mose, di Expo 2015, della corruzione dilagante, i lavavetri, gli immigrati clandestini, i rom. Il malaffare non si vede, ma c’è, ed è dietro i colletti bianchi, tra le plissettature di un sistema che favorisce i più furbi. Tutti lo sanno, anche i “normali”, che spesso, così, azzardano “dell’occasione dell’uomo ladro”.
Le cricche politiche, economiche, culturali fan sistema, dilagano, non punite e a testa alta. Qualche politico, di più o meno bassa lega, disonesto finisce in galera. Da molti si invoca il rispetto della privacy nelle indagini, si mette in discussione la legge sulle intercettazioni, (strumento, a dire dei tecnici d’indagine, molto efficace nella lotta alle mafie e alla malapolitica). Ed allora si fanno riforme che, imperterrite, continuano a garantire impunità a coloro che hanno più potere.
Qualcuno, amaramente, sostiene che il nostro Paese abbia stabilmente bisogno di mafia. Eppure tutti sappiamo che il denaro da essa proveniente è inconsistente, provento di quelle attività che si arricchiscono con i “mercati” della droga, del pizzo, dell’usura, dell’organizzazione dell’immigrazione come manovalanza criminale. Mafia che prosegue a speculare sugli appalti come grande pompe idrovora di denaro pubblico, finanziando imprenditori disinvolti, politici e funzionari corrotti, con flussi enormi di denaro sporco di sangue e ingiustizia. Sono quelle stesse mafie che votano e fanno votare ora a destra, ora a sinistra, secondo la convenienza del momento.
Certo, perché sono sempre più politici a rintracciarne voti e favori. Sembra, infatti, divenuto normale cercare il sostegno da chi non consente il decollo dell’economia, impedisce l’imprenditorialità e lo snellimento burocratico, togliendo ai giovani di sognare, agli immigrati di inserirsi tranquillamente, ai cittadini di considerare lo Stato se stessi.
Parlare di “tolleranza zero” deve partire da qua. Dall’esistenza di una “democrazia” marcia, che ha bisogno, sempre di più, di vera e sana politica, di scientificità nelle scelte, di coerenza intellettuale e di coraggio. Ogni altra considerazione “immediata” ha solo lo scopo di deviare lo sguardo dal “reale” problema, e porta solo acqua al mulino della cultura dello “sfascio” e/o della paura.