Il Blocco sociale del neokeynesismo è destinato a soccombere o a subire un forte ridimensionamento e, a farne le spese saranno: istruzione/formazione e sanità pubblica (almeno per come le abbiamo conosciute) ma, più in generale le forme di ammortizzatori sociali
5gennaio 2016 di Federico Giusti Cobas Pisa
Non è profezia, si tratta solo di leggere obiettivamente la realtà per quella che è, a partire dai decreti attuativi del Jobs Act e valutare con distacco la esaltazione del Reddito Minimo Sociale da parte di quanti, erroneamente, pensano che la fine del neokeynesismo determinerà la ridistribuzione del welfare e dei redditi, magari a favore dei precari e di chi sta nella gestione separata dell’Inps.
Sarebbe opportuno guardare alla Germania di inizio secolo e al governo a guida socialdemocratica per cogliere le numerose, troppe, analogie e coincidenze con il Governo Renzi, dalla riforma del Lavoro (abbattimento dei sussidi di disoccupazione, riduzione degli ammortizzatori sociali Mini Job da 450euro e Medi Job da 800euro, presentati come aumento dei posti di lavoro), fino allo smantellamento di uno dei più’ importanti e garantisti welfare mondiali e, conseguente drenaggio della ricchezza prodotta dai redditi poi trasferiti nei grandi capitali (con una revisione delle aliquote che favorisce i redditi alti).
Senza entrare nel dettaglio, lo fa per noi Alessandro Somma in un bel testo recentemente uscito “L’altra faccia della Germania Derive Approdi 2015, il Governo Renzi si muove su una strada già battuta. Dieci anni fa il capitale europeo decise che, per le riforme strutturali richieste dal neoliberalismo e dal capitalismo europeo, fosse indispensabile un governo di centro sinistra.
Con il pareggio di Bilancio in Costituzione, il Bilancio pubblico e il controllo dell’economia è stato trasferito dai Parlamenti nazionali nelle decisioni di organismi sovranazionali e, da qui nasce la continua riduzione della spesa sociale. Il ridimensionamento del welfare, l’aumento dei costi di servizi sanitari, accessibili per altro ad un numero sempre più’ limitato di potenziali utenti, con l’aumento delle malattie e in prospettiva la riduzione stessa della speranza di vita.
L’euro è stato lo strumento con cui l’Europa, a guida tedesca, ha costruito politiche neoliberiste di austerità, evitando che i paesi più’ deboli usassero la leva della svalutazione della moneta nazionale, al fine di riconquistare competitività. Se la Grecia avesse avuto questo strumento oggi non vedrebbe forse il suo patrimonio pubblico in svendita.
Il nuovo secolo è a guida tedesca, decine di banche tedesche sono di fatto pubbliche, di proprietà dello stato e dei Lander, finanziano le imprese pubbliche e private sostenendone la domanda ma poi, pretendono che nel resto d’Europa si applichino le regole neoliberiste, analogo discorso vale per la moneta unica dell’euro e di cui il massimo beneficiario è proprio la Germania.
Ma, dove finiscono nel resto d’Europa i risparmi nazionali:
- non a sostegno del reddito e della domanda,
- non a supporto del debito statale,
- non ad allargare i beneficiari del welfare o a investimenti nel settore pubblico e nella ricerca,
i soldi prendono altre strade e, a beneficiarne sono i capitali finanziari e le multinazionali.
Quindi, la sovraccumulazione del capitale non prende più la strada del sostegno alle politiche del lavoro, inoltre l’ampliamento di alcuni ammortizzatori a più soggetti sociali è finanziato proprio dalla contrazione, degli stessi, in termini di durata. Tutto questo ha effetti deflattivi che si ripercuotono negativamente sul mercato del lavoro e nelle imprese meno competitive, determinando espulsione di manodopera e saperi ormai prossimi alla pensione, con ampio ricorso ai part time.
Nella fase attuale la circolazione dei capitali è orientata a politiche diametralmente opposte a quelle Keynesiane, indirizzati prevalentemente alla costruzione di una area di mercato transazionale e questo è il motivo per cui sempre meno risorse sono indirizzate al welfare e alle politiche attive del lavoro. Non è un caso che, progressivamente, i settori pubblici vengano privatizzati o obbligati a linee guida che ne stravolgono il carattere di “Bene Comune” (es. sanità, acqua, trasporti ecc.). In questo scenario, a livello nazionale, i vari Governi intraprendono politiche dettate dalla riduzione del potere di acquisto, dal ridimensionamento del sindacato e la ridefinizione dei modelli di welfare, riducendone risorse e platea degli aventi diritto.
Capiamo le ragioni dei sostenitori del reddito minimo sociale ma non possiamo condividerne l’entusiasmo.
Tuttavia sarebbe sbagliato respingere in modo aprioristico, la revisione dell’attuale welfare, pertanto senza cedere di un centimetro al governo Renzi, occorre mettere all’ordine del giorno la cancellazione delle Riforme “Fornero/Jobs Act e aprirer un fronte contrattale sulle tutele a favore di quei settori in crescita fatto di precariato che pagano tasse, senza ricevere trattamenti previdenziali e ammortizzatori sociali, degni di questo nome.
Il punto è che, promettere un welfare realmente universalistico e nel frattempo permettere di smantellare e/o deregolamentare quello esistente, è un non senso, specialmente in una fase politico/amministrativa dove si restringono gli spazi di agibilità e di democrazia partecipata, dove gli indirizzi economici sono sempre più eterodeterminati.
Quindi, alcuni dei sostenitori del Reddito Minimo sembrerebbero più’ in linea con quella idea dello Statuto dei Lavori (pensata di inizio secolo di Treu e di Amato) piuttosto che con la difesa delle tutele esistenti e/o la loro estensione a tutte le forme lavorative dell’oggi.
Ovviamente, da qui a negare la necessità del reddito minimo corre grande differenza, ma:
- è troppo chiedere ai sostenitori di questa misura un po’ di attenzione alle ragioni e alle cause reali che porteranno alla sua approvazione?
- ed è troppo pretendere che non si finisca ancora una volta nella rete della Cgil che in crisi di rappresentanza si erge a tutela dei precari che vivono in condizioni di miseria grazie anche alle politiche sostenute da Cgil Cisl Uil?
Globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia sono tra le cause del ridimensionamento del welfare e della stessa compressione dei salari (il potere di acquisto cala ogni anno, il lavoro dipendente perde statisticamente terreno a favore solo dei profitti di impresa). L’euro è lo strumento privilegiato con cui si riorganizza, nel vecchio continente, non solo l’accumulazione capitalistica ma si eliminano al contempo le anomalie nazionali, una sorta di conflitto inevitabile con il moderno capitalismo transazionale che per affermarsi ha bisogno di cancellare ogni forma di tutela collettiva, che riscrive le Costituzioni e le regole nel Mercato del Lavoro, eliminando ogni riferimento a un indirizzo, pur vago, dell’economia a fini sociali (su questo rimandiamo a Vladimiro Giacchè Costituzione italiana contro trattati europei e soprattutto a Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale entrambi editi da Imprimatur)
Ridurre la spesa sociale significa anche evitare che i soli pubblici vadano a incrementare la domanda e le misure che determinano il welfare, perché il capitalismo di oggi non ha bisogno di queste misure per affermare i suoi interessi: Da qui la crisi del modello Keynesiano e del blocco sociale di riferimento, da qui nasce l’elogio della precarietà per affermare una nuova classe lavoratrice ricattabile, senza tutele e senza sindacato.
Una nuova idea di lavoro, di impresa e di cittadinanza potrà nascere dalla derogalamentazione del diritto di lavoro e da una democrazia bonapartista incarnata dal partito della nazione? Contrariamente a quanto scrivevano alcuni (Negri in primis) non sono scomparsi gli stati nazione che oggi sono impegnati soprattutto nel promuovere politiche di deregolamentazione giuslavorista, quindi lungi dallo scomparire gli stati nazionali hanno ridefinito ruoli e funzioni nella fase di sovra accumulazione (di capitali e di merci).
Provare a dimostrare la ragionevolezza, anche in ambito capitalistico, delle ricette neokeynesiane è un esercizio diffuso tra gli intellettuali di sinistra.
Noi sappiamo che favorire la domanda sarebbe sicuramente preferibile a politiche di austerità ma, si dimentica che in una certa fase storica è stato lo stesso capitalismo a sposare queste teorie che oggi risultano inadeguate a superare le contraddizioni sistemiche. Numerosi intellettuali, invece di analizzare il modo di produzione capitalista, si fermano solo alla fase distributiva e sognano i bei tempi andati, assumendo caratteristiche nostalgiche al pari di chi oggi rimpiange la rivoluzione socialista e ritiene che la soluzione ad ogni contraddizione sia la rinascita di un partito comunista senza prima discutere di programmi, finalità dello strumento organizzativo.
Ma ancora più’ pericolose sono; in realtà le fusioni a freddo di ceto politico, esperienze come quelle di Sinistra Italiana sembrano essere costruite per illudere sulla nascita di una nuova aggregazione di sinistra che poi, forte di qualche consenso elettorale, andrà a mediare con il Pd per costruire alleanze elettorali e di governo locale.
Una volta per tutte va detto che con il neoliberalismo del Pd non ci possono essere alleanze e interlocuzioni, lo scriviamo alla vigilia di alcune tornate elettorali che vedranno rompersi alleanze “a sinistra” a favore della permanenza nelle coalizioni con il pd, del resto, come diceva un ministro democristiano di lungo corso, il potere logora chi non lo possiede… Le fusioni di imprese, di cui accennavamo prima, hanno bisogno di una deregolamentazione giuslavorista, di ridurre il potere di acquisto e di contrattazione sindacale e parliamo di processi che avvengono a livello europeo pur avendo alcune accelerazioni nei paesi meno competitivi del vecchio continente dove l’austerità sta producendo danni sociali incalcolabili, oltre a ridurre sul lastrico l’economia nazionale regalando a prezzi di favore quote azionarie e aziende a multinazionali dei paesi più’ avanzati.
I paesi europei ormai fanno a gara per favorire le condizioni migliori per l’arrivo dei capitali, non importa ai governanti locali se tutto ciò’ si tradurrà:
- in devastazione dei loro territori,
- nella perdita di sovranità nazionale,
- nella desertificazione economica di intere regioni,
- nello sfruttamento selvaggio delle locali risorse\forza lavoro,
- nell’uso di una tecnologia sempre più’ esasperata dalla quale dipende la tenuta futura del modello di produzione capitalista.
Per ripianare le contraddizioni sociali in ogni caso c’è sempre una legislazione di emergenza utile a criminalizzare opposizione e dissenso, del resto basterebbe guardare alle migliaia di condannati per reati che vanno dai blocchi stradali alle occupazioni di casa.
Per queste ragioni, in ogni paese, troveremo interventi analoghi a quelli del jobs act con politiche fiscali che gravano sui redditi da lavoro dipendente a solo vantaggio della libera circolazione di capitali. la Germania è partita in anticipo oltre un decennio prima con le riforme sul lavoro della SPD. Analogo discorso va fatto per le legislazioni che si accaniscono contro il diritto di sciopero e limitano fortemente il diritto alla circolazione e a manifestare
Gli stati nazionali rinunciano alla loro tradizionale sovranità e fanno a gara per offrire migliori condizioni alle imprese, da qui nascono le Cessioni di Aziende e Quote Azionarie a capitalisti stranieri (nel frattempo i capitali nazionali vanno verso l’acquisizione di aziende straniere ritenute strategiche, nel controllo dei corridoi energetici..) con l’inevitabile sequela di licenziamenti e fusioni, con porzioni di territorio preda della disoccupazione di massa e della desertificazione industriale. Ridurre la sovraccumulazione del resto è vitale per superare la crisi del modello capitalistico, anche se determinerà la chiusura di tante fabbriche e la perdita di migliaia di posti di lavoro.
In questo scenario anche rivendicare maggiori ammortizzatori sociali, agli occhi degli apologeti del capitalismo, diventa un lusso insostenibile, non perché non ci siano soldi ma perché questi capitali vengono indirizzati ad altro scopo, al controllo delle aziende e allo sviluppo delle stesse in ambito transazionale
Stato e collettività non sono sinonimi, lo stato ha assunto decisioni (vedi le privatizzazioni) che con gli interessi delle classi sociali meno abbienti hanno poco a che vedere. Non illudiamoci pertanto a riproporre un intervento dello Stato che, come in passato, favorirebbe solo i capitali privati, vogliamo invece pensare a ricondurre, come Moro scrive a conclusione del suo libro, le forze di produzione sotto il controllo della società e, ci accontenteremmo intanto di costruire una nuova e variegata alleanza sociale contro il neoliberalismo, una alleanza che non si ponga per come obiettivo la scadenza elettorale (che nel corso degli ultimi 25 anni ha determinato solo sconfitte e arretramenti e la perdita di un radicamento sociale ormai ridotto ai minimi termini).