Il lavoro che uccide. Aveva 19 anni e lavorava in subappalto per Fincantieri a Monfalcone

Aveva una vita davanti, ma tutto si è fermato in un giorno di primavera, dentro un cantiere navale. Rivendicare il diritto alla vita.

10maggio 2018 da Lorenzo Tamberi, Redazione Lotta Continua

Matteo Smoilis aveva solo 19 anni, stava lavorando nella ditta di famiglia, in subappalto per Fincantieri a Monfalcone. E’ deceduto schiacciato da un carico di cemento di 700 kg sotto gli occhi del padre e del fratello maggiore. Domani Matteo sarà solo un numero in più tra le vittime della guerra non dichiarata, che in Italia da anni viene combattuta nei cantieri edili e navali, nelle fabbriche, nella campagne e in ogni altro luogo di sfruttamento. Qualche ora di sciopero, il cordoglio della politica e dei sindacati, i servizi dei telegiornali e poi il dimenticatoio, fino alla prossima morte eclatante. Tre vittime al giorno sono una media raccapricciante, eppure queste storie non fanno notizia se non in casi eccezionali.

Quando una “morte bianca” buca l’indifferenza generale, si piangono lacrime di coccodrillo, fazzoletto in una mano e portafoglio gonfio nell’altra. I sindacati tuonano invettive poderose ma, impotenti, chinano la testa perché il Dio del profitto non può essere messo in discussione, né la catena di subappalti al ribasso fermata. Vedremo le consuete lacrime a favor di telecamera ma, qualche giorno dopo assisteremo ai noti licenziamenti punitivi e alle denunce contro chi alza la testa, contro chi parla di sicurezza senza aver paura di manager e avvocati.

Il diritto alla vita non può essere in subordine al profitto e/o al mito del lavoro (ad ogni costo e in ogni condizione), lavorare stanca e spesso uccide, soprattutto in queste condizioni.

Non servono nuove leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, servono invece più Ispettori del Lavoro. I soldi ci sono, ma vengono spesi per tagliare le tasse ai ricchi, per salvare le banche, per riempire di telecamere i nostri quartieri (sia mai che qualcuno imbratti un muro), peggio ancora per fare la guerra in Niger e in altre decine di paesi. Dietro ai freddi calcoli, alle necessità di bilancio ci sono le nostre vite, occorre rivendicare ritmi umani di lavoro, il lavoro deve essere redistribuito, non si possono spremere le persone fino alla morte, fino a 70 anni, siano operai, impiegati o freelance.

  • Hanno detto che la classe operaia non esiste più eppure gli operai continuano a morire.
  • Hanno raccontato di una scuola attrezzata con tablet e computer, eppure gli edifici scolastici sono fatiscenti e gli studenti si feriscono durante l’alternanza scuola-sfruttamento.
  • Hanno descritto i laureati come imprenditori di se stessi, eppure si consumano di fronte ai loro computer senza tutele e senza diritti.

3 morti al giorno testimoniano gli effetti di una guerra, combattuta in nome del profitto

La sicurezza sul lavoro non può continuare ad essere delegata o concessa ad imposizioni eterodeterminate piuttosto che alle decisioni di chi lavora, di chi conosce i rischi e che affronta nel quotidiano le inutilità della burocrazia: i lavoratori nei cantieri, gli operai nelle fabbriche, i disoccupati che si ammalano di depressione, ma anche gli studenti delle scuole che cadono a pezzi e chi lavora a cottimo davanti un computer convinto di essere un imprenditore di se stesso, senza dimenticare le vittime del caporalato in agricoltura. La risposta è vivere e non crepare di lavoro, perché la vita è fuori dalle gabbie dello sfruttamento.

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