La fusione tra Bayer e Monsanto è stata preceduta da Dow Chemical-Du Pont e da Chem China-Syngenta
5ottobre 2016 di Francesco Gesualdi, * Centro nuovo modello di sviluppo
L’annuncio è stato dato in contemporanea a Leverkusen (Germania) e a St. Louis (Stati Uniti), ed aveva più il sapore della storia d’amore che d’affari: Bayer, re dell’aspirina, sarebbe andata a nozze con Monsanto, regina delle sementi. Superato il periodo delle trattative hanno annunciato al mondo che si fonderanno per diventare un’unica entità che si occuperà contemporaneamente di farmaceutica, sementi e pesticidi.
Strana mescolanza se non fosse che per adattarsi ai bisogni dell’agroindustria le sementi appartengono sempre di più alla chimica, che alla natura. Geneticamente modificate o no, per dare le rese promesse, le sementi moderne hanno bisogno del supporto di una grande quantità di chimica, non solo fertilizzanti, ma anche pesticidi. E qui Bayer la sua bandierina l’ha già piantata da tempo. Ne sanno qualcosa gli apicoltori che da anni assistono ad una moria devastante di api anche a causa dei pesticidi messi in commercio da Bayer e Syngenta.
Per la verità, su un fatturato annuo di 4 miliardi realizzato da Bayer, il 49% proviene dalla farmaceutica, il 26% dai polimeri e il 22% dai prodotti per l’agricoltura, permettendole di controllare il 17% del mercato mondiale dei pesticidi, seconda solo a Syngenta che sta al 23%. Ma come ogni impresa, la sua ambizione è diventare prima della classe ed è per questo che le serve Monsanto, che un primato lei ce l’ha nel settore delle sementi di cui controlla il 26% del mercato mondiale.
Del resto Monsanto ha insegnato che il modo migliore per vendere pesticidi è fabbricare sementi pensate per essere associate a medicamenti specifici, in modo da poter vendere pacchetti completi. L’esempio classico è quello del glifosato, un erbicida così potente da distruggere anche le colture che si vogliono proteggere.
Per trovare la soluzione Monsanto si è tuffata nell’ingegneria genetica e alla fine ha tirato fuori un seme di soja geneticamente modificato capace di resistere all’azione distruttrice del glifosato. Di colpo si è aggiudicato il primato della vendita dell’erbicida che vende sotto il marchio Roundup in associazione con la soja capace di resistergli. Peccato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia indicato il glifosato come un probabile carcinogeno, mentre neanche uno dei dubbi sollevati sulla pericolosità degli ogm sia ancora stato dissipato.
La decisione di Bayer di comprarsi Monsanto non è un fulmine a ciel sereno, ma la conseguenza di una guerra in atto fra giganti della chimica agroindustriale per la conquista del mercato mondiale di sementi e pesticidi. Capito che i due settori sono fortemente interconnessi fra loro, la strategia che tutti perseguono è quella di trasformarsi in imprese presenti contemporaneamente sia in un settore che nell’altro.
Così sono cominciati i matrimoni fra imprese prevalentemente chimiche con imprese prevalentemente di sementi. Ad aprire le danze è stata Dow che a fine 2015 ha concluso un accordo per fondersi con Du Pont potendo arrivare, insieme, a controllare il 20% del mercato mondiale dei due segmenti. Un mercato complessivo che oggi vale 80 miliardi di dollari all’anno, ma che nel 2025 è atteso a 125 miliardi di dollari.
- Nel febbraio 2016 è stata la volta del colosso cinese ChemChina che andò a nozze con Syngenta, arrivando a controllare il 16% del mercato complessivo.
- E per non rimanere indietro ora arriva l’accordo fra Bayer e Monsanto che assieme potranno controllare il 28% del mercato mondiale dei due segmenti. Del resto il momento propizio è ora anche sul piano finanziario.
Bayer non ha sull’unghia i 66 miliardi necessari per effettuare l’acquisto per cui dovrà indebitarsi. Scelta non facile dal momento che ha già sulle spalle un debito di 15 miliardi, ma i suoi analisti le hanno fatto notare che Draghi le sta dando una mano: il famoso quantitative easing che tutti i mesi induce la Banca Centrale Europea a inondare il mercato finanziario con 85 miliardi di euro freschi di stampa, ha portato i tassi di interesse in zona negativa, per cui ora è il momento di muoversi, con tanti ringraziamenti.
In teoria, per diventare operativi, i tre accordi hanno bisogno dell’approvazione delle autorità di vigilanza sul mercato e la concorrenza di vari paesi, primi fra tutti Stati Uniti ed Unione europea. Ma nessuno dubita sull’esito positivo delle procedure, non fosse altro per la potenza di fuoco dei colossi in gioco. E non tanto per i loro fatturati annui, quanto per i soldi che spendono in attività di lobby.
Dai dati forniti dall’organizzazione statunitense Opensecrets, si apprende che nell’ultimo decennio, Monsanto e Bayer hanno speso congiuntamente 120 milioni di dollari per ottenere dai centri di potere politico degli Stati Uniti decisioni favorevoli ai loro affari. Un tema su cui si sono impegnati in maniera particolare è stato quello dell’etichettatura dei cibi geneticamente modificati ed alla fine ce l’hanno fatto ad ottenere una legge, promulgata nell’estate 2016, che di fatto non è di nessuna utilità per i consumatori. Quanto all’Europa, mancano dati altrettanto precisi, ma si sa che Bayer fa parte di Ecpa, l’associazione di rappresentanza dell’industria dei pesticidi a livello Europeo, che è fra le più assidue frequentatrici della Commissione Europea per orientare le direttive e i regolamenti riguardanti l’agricoltura. Ovviamente senza dimenticare il TTIP, il trattato concordato in segreto fra Ue e Usaper creare un vasto mercato transatlantico a totale disposizione delle multinazionali delle due sponde.
Secondo Corporate Europe Observer, le imprese dell’agroindustria sono state fra quelle che hanno esercitato maggiore pressione per ottenere esiti favorevoli ai loro interessi. L’11 agosto 2016, in apertura del dossier relativo alla fusione fra Dow e Du Pont, il Commissario europeo alla concorrenza Margrethe Vestager ha dichiarato solennemente:
«La vita degli agricoltori dipende dall’accesso ai semi e ai pesticidi a prezzi competitivi. Dobbiamo essere sicuri che le fusioni in atto non conducano a prezzi più alti o a minore innovazione».